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Camorra: l'abbraccio mortale con imprenditoria e colletti bianchi

Camorra: l'abbraccio mortale con imprenditoria e colletti bianchi

Autore: Editoriale di Padre Maurizio Patriciello
Data: 22/04/2017 07:05:52

Hanno sporcato tutto, perfino il buon nome degli abitanti del paese in provincia di Caserta dove sono nati e cresciuti. “Casalese” vuol dire, infatti, abitante di Casal di Principe, non affiliato a un clan camorristico.

Convivere con la camorra è cosa estremamente difficile. Per farlo, la gente semplice, laboriosa, buona deve piegarsi a ingoiare qualche compromesso. Abitare nello stesso vicolo del “capo”, andare a scuola con suo figlio, ritrovarsi al bar con accanto il capozona, non è proprio il meglio che ti possa capitare.

La camorra in Campania ha fatto il bello e il cattivo tempo. Ha comandato e minacciato, umiliato e ucciso. Ha deciso chi dovesse essere eletto e perché. Non di rado i nostri concittadini sono stati tacciati di essere omertosi, quindi, in un certo senso, complici. Dietro la presunta, e comoda, omertà dei cittadini si sono nascosti imprenditori e politici, opportunisti e opinionisti.

Anche tra gli onesti, pochi erano disposti a fermarsi, ragionare, tentare di capire. Che cosa pretendeva da privati cittadini lo Stato? Che denunciassero apertamente il malaffare. Come se fosse facile per una mamma portarsi dai carabinieri, fare nomi e cognomi dei camorristi ( che tra l’ altro tutti conoscevano ) e poi far ritorno a casa come se niente fosse. Che si sarebbe cacciata in un guaio le era chiaro fin dall’ inizio.

Avrebbe dovuto fare i conti con una schiera di avvocati agguerriti e lautamente pagati da quelli del clan. In un eventuale processo le avrebbero chiesto prove da esibire, e, – cosa più difficile di tutte – avrebbe avuto dovuto continuare a convivere con quella gente.

La donna di cui parliamo, ricordava le tante vittime della lupara bianca. Sapeva che “quelli” non scherzano, ma minacciano, terrorizzano, ammazzano. Quella donna, d’ altronde, non si fidava del tutto nemmeno di chi era deputato a tutelarla. Sapeva bene che tanti politici dovevano la propria fortuna alla camorra.

nsomma, la gente semplice aveva intuito che la camorra era qualcosa di più complesso di quanto si potesse credere. Che fare? O andare via o tacere per poter sopravvivere in una zona dove lo Stato aveva abdicato da troppo tempo.

A tutti era chiaro - pur non avendo prove certe – che tra la camorra propriamente detta e il mondo dell’ imprenditoria e della politica c’ era una intesa, un accordo. Tutti sapevano che per sopravvivere in una terra dove il lavoro è sempre stato tiranno, occorreva, in qualche modo, fare riferimento ai camorristi. A questa gente indifesa e impaurita veniva chiesto di farsi avanti, parlare, denunciare.

Di coraggiosi che si erano ribellati al clan ce ne erano stati, eccome. Nella nostra memoria i loro nomi sono scolpiti a carattere di fuoco. Quasi tutti pagarono con la morte la loro decisione. Tra loro il caro, indimenticabile don Peppino Diana, prete nato, vissuto e operante a Casale.

La gente sapeva che tra camorra, grosse fette dell’ imprenditoria e della politica c’era un abbraccio mortale capace di strozzare chiunque.

La gente conosceva i camorristi, i loro parenti, ma non quei pericolosissimi colletti bianchi insozzati con i quali faceva affari milionari. Volti invisibili, fantasmi sconosciuti. Professionisti preparati, colti, insospettabili. Uomini “ perbene” seduti dietro scrivanie enormi, che conoscevano e raggiravano le leggi. Con chi poteva pensare di misurarsi la povera gente?

Dagli antenati aveva appreso l’ arte della sopravvivenza. Per non morire, per non finire nei guai, per non cadere nella rete di una giustizia tante volte ingiusta con i poveri, l’ unica cosa da fare era tenersi fuori. Chi si rifiuta di entrare nell’ animo di queste persone bistrattate e oppresse non potrà mai capire che cosa voglia significare nascere e vivere in vaste zone della nostra bella Italia strette nelle grinfie della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta. Veniamo a sapere che due funzionari della tangenziale di Napoli sono sotto accusa per appalti truccati per favorire il cosiddetto clan dei Casalesi.

Nelle stesse ore in cui, basiti e inorriditi, assistiamo all’ ennesimo cavalcavia che crolla come se fosse burro. Il pensiero dei semplici corre a un eventuale ponte sullo stretto… Smettiamola. Convertiamoci. Ritroviamo la gioia di mangiare il pane guadagnato con il sudore della propria fronte.

L’ Italia ha gli uomini, i mezzi, le armi, la capacità, l’ intelligenza, per mettere la parola fine a questo assurdo e deplorevole modo di vivere e di intendere gli affari. Lo faccia con urgenza. Si decida a estirpare una volta per sempre la malapianta della camorra e dei suoi affiliati, soprattutto quelli nascosti dietro la vigliacca maschera della legalità.


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