Recensione: 'Strange games' - Teatro Vascello
Il mimo e la memoria di tanto cinema primi novecento non sono affatto morti, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Grock, ci guardano dal palcoscenico di Vladimir Olshansky che dal Cirque du Soleil arriva a Roma al teatro Vascello in tre date uniche (17,18 e 20 settembre ma a breve le repliche in Italia) e ci racconta l’uomo con tutte le sue debolezze. Movimenti sistematici, maschere –stucco sul volto, nasi abnormi, tute da marziano, scenografia scabra, fatta di colore a macchia, senza figuratività.
Un uomo incastrato in una stanza da cui non può né uscire né entrare, un uomo solo che di notte non dorme nostalgico e malinconico in attesa dell’ululato che ama e odia allo stesso tempo. Un tentativo di suicidio naufragato miseramente perché alla fine vivere è meglio. Un incontro improbabile tra alieni che poi si uccidono a vicenda scoppiando le loro teste a forma di palloncino.
Espedienti da teatro epico, senza orpelli, senza aggiunte di senso se non quello dato dai corpi e dai volti camuffati degli interpreti. Commedia farsesca, tragicomica coesistenza di riso e pianto tanto tipico della clownerie. Creazione e regia di Vladimir Olshansky, scenografia di Simon Pasthuk, effetti speciali di Johan Melin, e la musica onnipresente laddove le parole mancano. Uno slancio di vitalità che riafferra in volo la tradizione del teatro metafisico e il teatro visuale del mimo, della marionetta, dei suoni e della gestualità.
Esilarante il coinvolgimento del pubblico, in alcuni momenti in cui lo scherzo diventa beffa improvvisa e strappa sorrisi senza costo aggiuntivo. Commuove sempre il reiterarsi dello sconforto nelle facce sommesse dei clown, il loro abbrivio sull’esistenza, il loro incedere cauto e goffo. La mestizia non lascia sempre spazio alla speranza, anche se il finale regala un raggio di sole. Come sempre il Teatro Vascello riapre la stagione con una marcia in più, che lancia verso derive prodigiose.
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