Roma, Teatro Vascello: 'Il Gabbiano' di Anton Cechov
La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello mette in scena uno spettacolo difficile e complicato. Dal 13 al 25 gennaio, dal martedì al sabato, offre un cast d’eccezione che ha già una sua storia e una serie di successi che con questo ribadisce la bravura della compagnia. Per la regia di Fabiana Iacozzilli e l’assistenza di Marta Meneghetti, e con Simone Barraco, Jacopo Maria Bicocchi, Elisa Bongiovanni, Luigi di Pietro, Francesca Farcomeni, Guglielmo Guidi, Anna Mallamaci, Ramona Nardò, Banjamin Stender e Paolo Zuccari, le scene di Matteo Zanardi, la collaborazione di Matteo Latino e i costumi di Gianmaria Sposito.
Fare teatro oggi è una sfida continua, e scegliere un testo come Il gabbiano di Cechov può rivelarsi un’arma a doppio taglio. I classici per eccellenza hanno sempre la capacità di insegnarci qualcosa, tramite un testo che non invecchia mai. La grandezza degli scrittori sta proprio nella propensione a parlare al futuro e non sembrare mai sorpassati. In questo Cechov è ancora maestro e all’oggi una Compagnia che lo rappresenta deve farlo con arte.
La riuscita di questo spettacolo sta nell’abilità di rappresentare l’amore con un’assolutezza e una intensità fuori dal comune. I toni della voce, le cadenze, le pause, le luci stesse di Hossein Taheri parlano un linguaggio comune ed universale, che racconta il dramma di Kostya con una delicatezza e un senso di angoscia capaci di sprofondare lo spettatore nella disperazione. La vicenda è nota. Kostya ha il grande sogno di diventare un famoso scrittore e sposare Nina, la sua adorata. Ma quando entra in scena la madre di Kostya, Arkadina, tutto si frantuma addosso ad un muro inesplicabile.
E’ come se il processo di realizzazione si congelasse. Arkadina critica ferocemente il testo del figlio e Nina scappa a Mosca con Trigorin, l’amante della donna. Nina non avrà una vita felice ma Kostya è il vero simbolo dell’umanità delusa. In questa messa in scena gli attori impongono il loro forte punto di vista, l’amore impossibile, lo strappo tra il sogno e la realtà, il dramma che pervade l’uomo quando, solo, si sente abbandonato, deluso, non abbastanza forte per reagire e ascoltare. Tutto è magnificamente interpretato, in quello che è il teatro cechoviano, ricco di non detti, di pathos sottinteso, sincopato.
L’atmosfera rarefatta in cui prendono vita i suoi drammi sono la cornice perfetta per la tragedia che fa sempre sentire la sua eco e il suo incedere che non lascia prospettiva. Nell’illusione che non accada nulla, in realtà si stravolgono vite e la solitudine invincibile avanza a passi lenti e calibrati fino a quando, nello strazio e nell’incuranza del resto del mondo, Kostya si toglie la vita e crolla, finendo per odiare se stesso e quello che scrive. Il pubblico è decisamente coinvolto nel dramma finale, si rivede in quelle parole di amara delusione, la delusione universale dei sogni spezzati. L’empatia con gli attori è immediata.
Anche se tutto vorrebbe presentarsi in modo naturale, nel suicidio nulla è naturale, tutto appare come ineluttabile. Che cosa è importante nella vita? L’amore sembra urlare questo dramma tanto attuale, l’amore che determina le nostre scelte e la vita di tutti. Ancora una volta, un grande classico ha saputo parlare senza corruzioni di pensiero o fraintendimenti. Il dialogo con la vita è incessante, alla ricerca di un senso che un teatro come questo sa ancora raccontare.
L'articolo ha ricevuto 4112 visualizzazioni