Diario del tempo, la prima parte (in due atti) al Teatro India
Quarant’anni e… sentirli tutti. Ogni cambio di decennio porta con sé le sue belle crisi esistenziali, forse il più delicato è quello che porta agli “anta”, tempo di bilanci come i trenta ma con minore indulgenza se non si è ancora raggiunta la piena realizzazione. Cosa che di certo non è capitata ai protagonisti di Diario del tempo: l’epopea quotidiana, prima parte in due atti del lavoro scritto e diretto da Lucia Calamaro, in scena fino allo scorso weekend al Teatro India.
Federica (Federica Santoro) è disoccupata da due anni e riesce a sopravvivere affittando stanze, ma ha fin troppi vuoti che riesce a colmare solo scaricando la tensione correndo, così come l’urgenza di occupare il tempo è presente e forte nel personaggio interpretato dalla stessa Calamaro – innominato nello spettacolo – supplente di educazione fisica recentemente iscrittasi a filosofia. Poi c’è Roberto (Roberto Rustioni), vicino di casa di Federica “retrocesso” per così dire a lavoratore part-time.
Crisi del tempo (e dei tempi) come elemento fondante e filo conduttore. Non solo una ricerca di impiego per sbarcare – a fatica – il lunario, ma anche di impiego di tempo libero, fin troppo per tutti e tre i personaggi, alla ricerca così di un loro ruolo che li faccia sentire attivi e bene prima di tutto con se stessi. Perché “la vita è subito bella copia. Allora tu mi dai l’indice così uno la studia e la sa”, l’utopia espressa che eviterebbe a tutti di essere colti impreparati, come a scuola. Perché il tempo non aspetta.
“Diario del tempo ha un doppio asse tematico” scrive la regista Lucia Calamaro, “che sta trovando il suo snodo o nodo, come direbbe Lacan (psichiatra e filosofo francese del Novecento, ndr): la disoccupazione e il tempo. Non sono luoghi slegati tra di loro, un disoccupato ha la maledizione del tempo sul groppone. È il suo unico lusso ma lo perde costantemente cercando come abitare le giornate, come renderle economiche, spendibili, produttive, in una parola ‘reali’. Cerca come e cosa fare e nel farlo, nel cercare, sciupa una grossa fetta della sua attenzione. E il tempo gli passa così, in piena distrazione. A un disoccupato insomma non rimane che aggrapparsi alla dimensione dello spazio perché quella del tempo su di lui si accanisce e impazza, alterandogli il reale”.
“Il tempo di per sé preoccupa”, continua la Calamaro, “questa sua contraddizione interna, infinito a livello teorico, finitissimo a livello di esperienza è quantomeno disturbante. Il fatto che a un certo punto non ci sia più tempo, il fatto che uno se ne accorga sempre troppo tardi, quando è già lì. Il suo accartocciarsi e slabbrarsi, il suo non stare mai fermo, la sua crudeltà, il suo contrarsi e allentarsi, il suo peso, la sua onnipresenza. Insomma, un aggeggetto da niente la cui complessità mi schiaccia e di cui in qualche modo qui vorrei parlare, ma non so se ci riesco”.
L'articolo ha ricevuto 1584 visualizzazioni