Teatro Quirino: 'Zio Vanja' Riflessioni su un testo classico
Zio Vanja, Il classico dei classici, per eccellenza, quello che potremmo definire il capolavoro di Cechov, ha debuttato ieri sera, 3 dicembre 2013, al Teatro Quirino di Roma. Solo la prima di una sfilza di date che percorreranno l’intero stivale fino a Febbraio 2014.
Nomi del calibro di Michele Placido, nei panni di Serebriakoff, e Sergio Rubini, appunto zio Vanja, oltre a Bruno Cariello (Telieghin), Marco Trebian (operaio), Maria Lovetti (balia) e Lucia Ragni (mamma). Per la regia di Marco Bellocchio, regista notoriamente anticonformista che si è espresso sempre nell’ambito della laicità per parlare di politica sessantottina, follia o incapacità di amare. Perchè scegliere un testo classico, per parlare ad un pubblico del nuovo millennio?
Qual è il messaggio che Cechov ci ha lasciato e che ancora oggi vale come eterno e sempre attuale? Già dalle prime battute si sente una rivisitazione da parte del regista, che avvicina tanto quello zio Vanja, angosciato e depresso, ad un uomo dei nostri giorni. Il Sergio Rubini che ci ricordavamo in Denti, tanto per citarne uno, prende i panni degli interrogativi esistenzialisti che segneranno tanto teatro moderno del novecento. Il senso della vita, lo scorrere monotono e sempre uguale dei giorni, l’atmosfera inquieta e surreale della tenuta dove si svolge la vicenda, che fa presagire l’imminente tragedia, senza in realtà raccontare nulla. Chi è zio Vanja? Un uomo meschino piegato dagli eventi della vita?
Un filosofo mancato che si nasconde dietro la scusa di non aver potuto fare altrimenti, che se fosse stato diverso avrebbe anche lui scritto e studiato e pubblicato, come Serebriakoff, diventando addirittura un Dostoevskij? Vanja incarna l’uomo afflitto dell’ottocento ma anche l’uomo contemporaneo, non sempre padrone di quello che gli accade.
Serebriakoff è il suo alter ego, il vincente sbruffone, che comanda e giudica, decide e si lamenta a suo piacimento. E zio Vanja lo detesta, di un odio che supera i millenni per arrivare fino ai giorni d’oggi, la rabbia dei soprusi, dell’infelicità, della prevaricazione. E tra le maglie di questa dimensione inconsistente, dove l’illuminazione del palco, quasi cinematografica, ci fa avvertire il rincorrersi delle ore, con effetti luce di volta in volta cangianti, vivono le figure femminili, Helena e Sonia (Lidiya Liberman e Anna Della Rosa), subissate da amori infelici, l’una sposata al burbero Serebriakoff e amata da zio Vanja, l’altra segretamente innamorata del dottor Astrof (Pier Giorgio Bellocchio) - anche lui impegnato in una battaglia venata di buonismo ecologico, contro il disboscamento e la distruzione della fauna - che la respinge perché invaghito della bella Helena.
Ma lei, l’ammaliatrice che aspetta la vittima nella sua tela per farne carneficina, è a sua volta travolta dalla depressione di una vita ormai tracciata. Vuota, incapace di fare qualsiasi cosa, tranne suonare il pianoforte, a cui ha peraltro rinunciato definitivamente, leggiadra, impalpabile, è una creatura di un tempo indefinito, vittima anch’essa e perdente. Chi davvero emerge in questo quadro desolante è Sonia, la brutta dai capelli e occhi bellissimi, la delusa dall’amore, la respinta, eppure quella che più di ogni altro personaggio incarna l’ideale di donna tenace, capace di accettare il proprio destino, misericordiosa e colei che alla fine, accanto ad uno zio Vanja sfinito e che ha appena tentato di uccidere il cognato Serebriakoff con un colpo di pistola, oltretutto mancato (beffa ancor più cruda ai danni di un personaggio del tutto immobile), è capace di dire: “Zio, caro zio, mettiamoci a lavorare, ricominciamo con i nostri conti, così non pensiamo a niente”. Desolante, di una desolazione che va oltre lo sconforto, alla fine fa pensare allo spettatore che non ci sia scampo alla condizione umana di miseria e ineluttabilità.
La scena si annebbia, lo zio Vanja è curvo sui suoi fogli spalmati sulla scrivania, accanto Sonia con il suo barlume di speranza, anche se era proprio lei a dire “e se rimanessi nell’incertezza? Almeno rimane la speranza (a proposito del suo amore per il dottor Astrof)”, per poi affrontare la dura verità del rifiuto e rifugiarsi nella piccola certezza dei suoi lavori quotidiani. Tra la scarna scena di strehleriana memoria e la realizzazione che sa di dejavù, Bellocchio, facendo l’occhiolino a Cechov, ha raccontato ancora una volta l’uomo con tutte le sue immense e indecifrabili fragilità.
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