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Lettera di accusa di Padre Maurizio Fraticiello sulla malasanità

Lettera di accusa di Padre Maurizio Fraticiello sulla malasanità
Autore: Padre Maurizio Fraticiello
Data: 29/05/2018

Padre Maurizio Patriciello ha perso suo fratello in un calvario che non si è limitato al dolore fisico: la malasanità ha fatto il resto

Abbiamo ottenuto, da Padre Fraticiello, la possibilità di pubblicare la sua lunga lettera: un atto di accusa contro un sistema sanitario che non rispetta più gli esseri umani sofferenti

 

AL PRESIDENTE DELLA REGIONE VINCENZO DE LUCA
AI DIRETTORI DEI GIORNALI CAMPANI
AI DIRIGENTI DEL SAN GIOVANNI BOSCO
AL NOSTRO MERAVIGLIOSO POPOLO CAMPANO

La salita al calvario di mio fratello Franco e nostra è durata un anno. Un anno durante il quale abbiamo potuto toccar con mano la triste situazione della sanità campana. Franco fu operato al San Giovanni Bosco di Napoli.

 

 

Cancro alla gola. Alla malattia grave e debilitante presto si aggiunse lo strazio dovuto alla situazione in cui versano tanti nostri ospedali. Dopo l’operazione non poteva più parlare né mangiare, occorreva alimentarlo attraverso un sondino sull’addome. Questa nuova situazione, oltre al dolore, gli procurava tanto imbarazzo. I figli non lo lasciavano solo un istante, la situazione, in ospedale, era quella che era. I visitatori arrivavano a tutte le ore, senza rispetto per la privacy dei pazienti.

 

 

Nel mese di luglio – dieci mesi prima della sua morte - all’ Ascalesi, ci dissero che era in fase terminale, per cui la causa di ogni problema che sorgeva era da ricercare nel fatto che fosse in fin di vita. Non ci rassegnammo e continuammo a lottare. Un giorno ci ritrovammo accanto al suo letto un venditore ambulante di calzini. Feci capire a quel signore di lasciare la stanza. Non se ne andò, iniziò invece a insistere agitando la sua mercanzia.

 

 

Quando si accorse che ero un prete, poi, si fece più invadente. Gli allungai una banconota pregandolo di tenersi i calzini. L’uomo, evidentemente ignaro della delicata situazione sanitaria di mio fratello, li lanciò sul letto e se ne andò. Su quei calzini di produzione cinese, tenuti per mesi nei più disparati depositi, di certo si erano insidiate colonie di microbi e di batteri. Il giorno dopo la ferita che permetteva a mio fratello di alimentarsi si infettò creando nuovi problemi. Una croce nella croce.

 

 

Ancora sofferenza. Il primario si arrabbiò moltissimo con il personale ordinando di fare più attenzione per l’igiene. Ascoltavo attonito. Pensai a quello che era successo il giorno prima, ai poveri disoccupati, venditori di calzini, che hanno accesso al capezzale di pazienti operati di cancro come se niente fosse.

 

 

Alla mancanza delle più elementari discipline di rispetto per gli orari di visita. Pensai alle pareti di quell’ospedale, sulle quali vengono “registrate” le nascite. Nome, cognome, data e ora di nascita del neonato con i relativi auguri. Pensai ai corridoi e alle scale dove si poteva – e si può - fumare tranquillamente e lasciare i mozziconi sui davanzali o gettarli giù in cortile. Franco stava male, non si reggeva in piedi, aveva bisogno di essere continuamente assistito per la respirazione. Un giorno occorreva fare una visita specialistica in un altro ospedale di Napoli.

 

 

Fu trasportato, senza la presenza di un medico, con l’ambulanza da Capodichino al centro della città. Gli infermieri addetti all’ambulanza non conoscevano la sua patologia, sapevano solo di dover condurre un paziente all’ospedale “Ascalesi”.

 

 

Non vollero che salisse in ambulanza un familiare. Franco era terrorizzato, ci implorava con lo sguardo. Lo convincemmo ad andare mentre noi avremmo seguito l’ambulanza con l’auto. Arrivati, attendemmo che lo specialista si liberasse. Dopo l’attesa, in corridoio, fu visitato per pochissimi minuti, senza il bisogno di nessuno strumento particolare. Una semplice visita che si sarebbe potuto fare al letto del paziente, senza stressarlo, senza impegnare ambulanza e personale. La salita al calvario per mio fratello è terminata.

 

 

Ma al “San Giovanni Bosco” ancora c’è chi rischia di morire per la scarsa igiene, per la presenza di venditori ambulanti di calzini cinesi zeppi di batteri. Mio fratello aveva il cancro, ma la sofferenza maggiore gli è venuta dagli imprevisti dovuti anche all’ incapacità di dirigere l’ospedale. J’accuse. E lo faccio con cognizione di causa. Prima di entrare in seminario ho lavorato quasi dieci anni in ospedale, sono infermiere professionale con funzioni direttive.

 

 

Ringrazio pubblicamente il dottor Antonio Marfella, oncologo dell’Istituto Pascal, impegnato da sempre nella battaglia per l’ambiente, anche lui colpito da un cancro alla prostata. Quando, come la maggior parte dei benestanti napoletani, decise di andare ad operarsi a Milano, volle rendere pubblica e argomentare la sua scelta. Avrebbe potuto mettersi in aereo a partire in gran silenzio come fanno tutti, non lo fece. Si scatenò un putiferio, fu accusato di non amare la sua città, e cose del genere. La verità era molto più semplice di quanto si potesse credere. Marfella col suo gesto stava dicendo: “ Il cancro mi mette paura come a tutti.

 

 

Non so che cosa mi riserverà il futuro. Per adesso scappo verso luoghi più sicuri. Economicamente me lo posso permettere, ma i poveri, che faranno i poveri? Chi li difenderà da questa sanità che tanto lascia a desiderare? Chi li accompagnerà in questo cammino faticoso e, sovente, senza speranza?”. Franco è morto tra le nostre braccia. Ma gli altri? Come faranno coloro che non possono permettersi di rimanere un anno intero, 24 ore su 24, accanto a un loro caro con gravissima patologia oncologica che si va spegnendo a casa sua? Il pensiero oggi corre a loro.

 

 

Padre Maurizio Patriciello.




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