Intervista a François Gemenne, ricercatore in scienza della politica all’Universita’ di Liegi, esperto in geopolitica ambientale e governance delle migrazioni
D. Le migrazioni ambientali sono un fenomeno nuovo?
R. La distribuzione della popolazione sul Pianeta e’ intrinsecamente legata alle condizioni ambientali: dall’installazione degli uomini preistorici sulle coste e alla colonizzazione di un’Europa ricca di risorse, con gli uomini che hanno sempre usato l’ambiente per il proprio sviluppo. Detto questo, l’avvento delle crisi ambientali non ci permette piu’ di affrontare questo con la visione dell’essere attratti: si tratta di un fenomeno di "esilio". Il concetto di rifugiato ambientale appariva per la prima volta nel 1985 in un rapporto del PNUE, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Le istituzioni lo prendono in considerazione agli inizi degli 2010, con, nel 2012, la pubblicazione di un rapporto della Banca asiatica di sviluppo e lancio dell’iniziativa Nansen, da parte della Svizzera e della Norvegia, destinata a migliorare le sorti delle persone costrette a fuggire a causa delle catastrofi naturali, e per gli effetti del cambiamento climatico. Questo processo intergovernativo ha portato nel 2015 all’adozione di un’agenda di protezione che segna definitivamente la crescita potenziale del concetto.
D. Quali sono le principali ragioni?
R. Esistono oggi due grandi tipi di cause: innanzitutto le catastrofi brutali – uragani, inondazioni e siccita’- che fanno muovere oggi 25 milioni di persone ogni anno in media. Il record, raggiunto nel 2010 con 41 milioni di sfollati, rischia di essere superato quest’anno a causa dei catastrofici monsoni in India, Nepal e Bangladesh (gia’ 42 milioni di persone colpite), delle inondazioni in Nigeria e anche degli uragani che sono passati alle Antille e in Asia del sud-est… In seguito, la degradazione dei suoli e la desertificazione sono due fattori piu’ lenti, ma all’origine di numerosi spostamenti di persone nell’Africa subsahariana e in Asia, essenzialmente nella forma di esodo rurale. E una terza causa sta diventando grande: l’aumento del livello dei mari.
D. E’ pertinente distinguere i migranti in base al fatto che siano tali per motivi climatici, economici e politici?
R. Tutto e’ legato ed e’ difficile isolare i fattori: da una parte si continuano a sviluppare le attivita’ economiche lungo le coste e, dall’altra, si osserva un esodo rurale che fa diventare piu’ grandi le popolazioni che si installano. Sul continente africano, dove la meta’ della popolazione dipende per il quotidiano dall’agricoltura di sussistenza, tutto accade di conseguenza. Prendete il Senegal, per esempio: i migranti climatici che non possono vivere con l’agricoltura di sussistenza, arrivano a Saint-Louis con la speranza di guadagnarsi da vivere con la pesca. Ma l’eccesso di pesca li spinge a passare la frontiera fino alla Mauritania, dove alcuni si lasciano tentare dai “passeurs” per raggiungere il Niger o il Mali, e anche la Libia, che e’ diventata per i migranti un campo di concentramento a cielo aperto… E alcuni rischiano la loro vita nel Mediterraneo con lo scopo di fuggire dall’inferno che stanno vivendo sulla terra. Numerosi migranti economici sono quindi anche in origine, dei migranti climatici, senza parlare dei fenomeni economici che rendono le popolazioni piu’ vulnerabili. Numerose grandi citta’ dell’Africa non sono in grado di dare lavoro, case e offrono un accesso insufficiente alle cure sanitarie ed ai servizi finanziari, cosi’ che molti continuano la loro strada e cadono tra le mani dei “passeurs”.
D. Quali sono oggi le zone piu’ toccate?
R. Il Bangladesh e’ un Paese particolarmente sensibile, sottomesso oggi ad un paradosso: accoglie piu’ di 450.000 rifugiati politici, che deve far fronte al flusso dei Rohingia cosi’ come alla crescita dei migranti a causa dei monsoni. Alla fine, l’aumento delle temperature rendera’ il Paese invivibile, senza parlare dell’aumento dei livelli dei mari, dell’intensificazione delle catastrofi naturali, della fusione dei ghiacciai dell’Himalaya, della forte densita’ della popolazione, del basso livello di vita e dei 3.300 Km d filo spinato e torri di guardia che l’India ha installato alla propria frontiera comune.. Penso anche alla periferia del lago Ciad, in Nigeria, che va verso una desertificazione notevole, ad una crisi umanitaria ed una fame che diventano terreno fertile per i gruppi terroristi e per i conflitti etnici per il possesso della terra e delle risorse agricole.. Ma attenzione, questi punti caldi non devono far dimenticare che le situazioni di crisi possono apparire in zone impreviste, come e’ stato il caso di Katrina a New Orleans.
D. La sua ricerca l’ha portata più vicino ai migranti, in molte parti del mondo. Cosa pensa dei meccanismi migratori che oggi sono in opera?
R. Da una parte, che le popolazioni piu’ toccate sono spesso le piu’ vulnerabili, ma non sono esse che emigrano per prime. In virtu’ della mancanza di risorse -e’ costoso migrare. Dall’altra parte, l’opinione pubblica percepisce le migrazioni se non come una piccola parte di quanto vede, attraverso i drammi che si consumano alla fine dei loro viaggi, nel Mediterraneo. Numerose migrazioni regolari ci sono ovunque nel mondo, e un lungo percorso in Africa precede spesso la traversata in Libia.
D. Non ci resta che accettare la fatalita’ di un fenomeno del genere?
R. No, ma la prima cosa da fare e’ accettare il carattere strutturale di queste migrazioni. Ci si puo’ lamentare, cercare di limitarle, ma questo non cambiera’ nulla. E’ quindi necessario cercare di trarre il meglio dai migranti, nelle societa’ che li accolgono e nelle societa’ di origine, con l’ideale che potrebbe essere una migrazione scelta piuttosto che costretta o forzata. Dobbiamo anche organizzare delle strategie di adattamento nelle zone piu’ toccate dai cambiamenti climatici, e fare da arbitri nelle zone da proteggere. Dopo Katrina, alcuni hanno fatto circolare l’ipotesi di non ricostruire piu’ New Orleans, che e’ molta esposta, per poterla invece farla altrove. Attualmente l’Indonesia sta pensando questo per Jakarta.
D. Politicamente la questione e’ sensibile… Come la spiega?
R. Il nostro mondo e‘ anche globalizzato oltre che frammentato: oggi ci sono piu’ di 40.000 chilometri di muri e di barriere (e’ piu’ di una volta la circonferenza della Terra), con circa sessanta Paesi dove almeno una frontiera e’ murata o chiusa. Siamo all’alba di un cambiamento piu’ grande e, nel momento in cui queste migrazioni pongono domande sulla distribuzione mondiale della popolazione, questo problema resta un tabu’ politico assoluto. Ma come risolvere la questione climatica con una quadro internazionale che resta inadatto per trattare queste questioni di asilo e migrazioni? Noi oggi siamo prigionieri del sacrosanto concetto di Stato-Nazione, una visione di sovranita’ nazionale ereditato dal trattato di Westfalia che e datato al XVII secolo. Ora il XXI secolo mette in discussione il concetto di identita’ nazionale e la nozione di frontiera, le popolazioni non sono piu’ oggi attaccate ad un territorio. Le migrazioni non sono un’anomalia o un problema da risolvere, esse non spariranno con dei muri o delle politiche di sviluppo.
D. Esistono quindi delle soluzioni, ce ne puo’ parlare?
R. Non c’e’ una grande soluzione generale, ma una molteplicita’ di soluzioni locali nazionali. Citiamo i sistemi di micro-assicurazioni tra contadini, gli introiti che servono a rimpiazzare i raccolti cattivi, la realizzazione di passaporti di transumanza attraverso la commissione della Comunita’ economica degli Stati dell’Africa dell’ovest (CEDEAO), per lasciare circolare il bestiame tra le frontiere, etc. Nei Paesi in via di sviluppo, le cose avanzano piu’ veloci di quanto lo credano nei Paesi del Nord, C’e’ molto da fare, ma numerosi governi, in questi Paesi, sono consapevoli di questi problemi.
D. A titolo personale, cosa prevede?
R. Il nostro mondo anticipa le tensioni sempre piu’ forti sulla questione delle frontiere, con una pressione sempre piu’ intensa sulla migrazione internazionale tra i Paesi in via di sviluppo. Le tensioni, senza dubbio, si rafforzano sulle frontiere, con una crescita delle logiche di chiusura.. Per venirne fuori, l’ordine mondiale dovrebbe considerare la Terra come un soggetto politico, e non piu’ come una decorazione della politica. Se non arriviamo naturalmente a questa politica della Terra, sara’ questa che ci forzera’ a farlo.
(intervista di Anne-Sophie Novel pubblicata sull’edizione di “Le1 hebdo” del 26/09/2017