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USA: il debito pubblico ammonta a oltre il 350% del PIL. Cosa rischiamo?

USA: il debito pubblico ammonta a oltre il 350% del PIL. Cosa rischiamo?
Autore: Claudio Martinotti Doria - Redazione Esteri
Data: 10/06/2017

Si stima che i debiti complessivi negli USA ammontino attualmente al 350% del PIL, sommando i debiti pubblici e quelli privati, molto peggio in termini percentuali ed assoluti del 2008 quando esplose la crisi dei mutui subprime le cui ripercussioni non si sono ancora esaurite, tutt’altro.

Ma è una stima per difetto, in quanto nessun ente di statistica, agenzia di rating o think tank americano (guarda caso, che sono così puntuali a far le pulci agli altri quando gli fa comodo) si è mai assunto questo ingrato compito, per cui le stime che ogni tanto emergono, seppur raramente, sono sempre parziali. Non tengono conto ad esempio, anche per la complessità di un tale calcolo, di quante città americane siano sull’orlo del fallimento o siano già in default per i debiti accumulati (rammentate Detroit? Il debito di una sola città americana in default a volte è paragonabile a quello di una regione italiana tra le più indebitate), e anche di alcuni dei 50 stati che compongono gli USA (oltre a Porto Rico che è in bancarotta).

Inoltre negli ultimi anni sono molto peggiorati i debiti studenteschi per frequentare l’università, il cui costo medio per quelle mediamente prestigiose si aggira sui 250mila dollari all’anno, per pagare i quali occorre una vita intera (degli ex studenti e delle loro famiglie), a meno che di avere la fortuna di essere assunti in qualche corporation con ruoli rilevanti e ben remunerati, prospettiva limitata a pochi mentre la classe media continua a regredire e dissolversi fino all’estinzione. Poi si è aggiunto l’uso sconsiderato delle carte di credito e dei finanziamenti al consumo, che più che per un ingiustificato atteggiamento ottimistico verso il futuro, farebbe sospettare un consumismo compulsivo ossessivo di una cospicua parte del popolo americano, cioè una patologia sociale, indotta da un’aberrante politica monetaria della FED di tassi prossimi allo zero, che è paragonabile al creare una dipendenza simile a quella del drogato nei confronti del pusher.

Ad ogni modo anche prendendo per buoni questi parametri di riferimento, la cifra complessiva che ne deriverebbe farebbe scomparire il debito pubblico e privato italiano, paragonabile ad uno sbadiglio o una flatulenza rispetto ad una tromba d’aria. Com’è possibile che si sia creata una tale paradossale situazione?

Le origini si potrebbero far risalire agli accordi di Bretton Woods dell’estate del 1944 quando gli americani ormai prossimi a vincere la II Guerra Mondale imposero il dollaro come unica moneta per le transazioni internazionali. A detenere e quindi sostenere il colossale debito americano solo in minima parte sono i cittadini degli USA, la stragrande maggioranza del debito è sulle spalle del mondo intero.

In numerosi testi antichi di tutte le latitudini, tra cui l’Antico Testamento, c’è scritto che chi detiene l’oro ha il potere e chi è indebitato è schiavo. Questa massima, pur risalente a migliaia di anni fa, è ancora attualissima, pur dovendola adattare al contesto mutato rispetto all’epoca originaria in cui fu concepita.

Da tempo l’oro è stato sostituito dalla finanza e soprattutto dalla “stampante monetaria” che crea denaro virtuale a ritmi esponenziali, e che è ovviamente sotto stretto controllo dell’élite dominante che lo distribuisce secondo proprie strategie di potere. Per cui ad essere schiavi inconsapevoli sono anche i cittadini americani, che per pagare gli eccessivi debiti contratti devono lavorare ossessivamente ed una significativa parte di essi (soprattutto giovani, ad esempio studenti universitari indebitati o immigrati in attesa di cittadinanza) devono essere disposti ad arruolarsi, per cui non mancheranno mai soldati da inviare in giro per il mondo a tutelare gli interessi economici e geopolitici dell’élite americana.

Queste premesse fanno temere, più che legittimamente, che l’unico sbocco cui possano condurre sia una guerra permanente, che è già in corso da almeno tre lustri, ma che potrebbe sfociare in un conflitto di ben maggiori dimensioni rispetto agli scenari bellici regionali finora manifestatisi.

Ecco spiegato il perché il governo neocons americano (la divisione tra democratici e repubblicani è puramente fittizia) è costantemente “provocatorio” nei confronti di “nemici” esterni, che anche quando non esistono devono essere inventati (come ben esplicitato dal politologo e storiografo accademico tedesco Herfried Münkler a proposito delle strategie sempre adottate degli “imperi”), perché senza nemici l’economia e la finanza americana, basata soprattutto sull’apparato bellico, sullo sfruttamento delle risorse altrui, sul consumismo sfrenato e sulla speculazione, collasserebbe, e non potrebbero più mantenere il loro potere manipolatorio ed il loro elevato tenore di vita alle spalle del mondo intero.

 

Quindi la situazione è tutt’altro che sotto controllo e dobbiamo attenderci il peggio, sottovalutare i rischi sarebbe da irresponsabili.

 

 

p.s. a sostegno di quanto sopra da me riportato vi allego l’ultimo articolo di un media mainstream che affronta l’argomento con la solita “leggerezza” …

Stati Uniti annegati nei debiti: quali i rischi per noi?

Fa un certo effetto sentirsi dire dalla banca centrale statunitense che gli americani oggi si ritrovano con più debiti del 2008, quando galleggiavano sui picchi della “bolla del credito” che di lì a poco avrebbe fatto collassare il sistema finanziario mondiale. Purtroppo però è la dura verità. La Federal Reserve di New York ha di recente annunciato un nuovo record storico per il debito privato statunitense: 12,7 trilioni di dollari (ovvero 12.700 miliardi). Una cifra enorme, pari a oltre cinque volte il nostro debito pubblico.

Il brutto è che oltreoceano dovunque ti giri trovi livelli di indebitamento a nuovi record. Prendiamo il debito universitario contratto per pagare i costosi atenei statunitensi: oggi torreggia a quota 1300 trilioni di dollari, più del doppio dei 611 miliardi di nove anni fa. A pagare questa montagna di soldi (che solo nel quarto trimestre dell’anno scorso è aumentata di 31 miliardi di dollari) sono 42,4 milioni di cittadini statunitensi, dicono i dati del Department of Education. Ma quel che fa più paura è la percentuale di default: ormai sono tremila al giorno, aumentati del 17% in un anno. Il che consegna ai prestiti universitari lo scettro delle insolvenze più numerose, secondo la Fed di New York, tanto da far temere la futura esplosione di una bolla per certi versi simile a quella dei famigerati mutui immobiliari d’antan.

La marea dei debiti però continua ad alzarsi anche su altri fronti: per esempio le carte di credito, dove siamo oltre il trilione di dollari, o i mutui immobiliari. Senza dimenticare il settore auto (a 1,1 trilioni di dollari), dove i finanziamenti sono stati concessi anche a profili “subprime” con l’inevitabile sequenza di default che ne è seguita. Poi naturalmente ci sono il debito governativo federale e quello dei singoli Stati.

Quanto alle imprese, «rispetto al 2010 hanno 7,8 trilioni di dollari di debito in più - sottolinea l’economista Dambisa Moyo, membro tra l’altro dei cda di Barclays Bank, Chevron e Barrick Gold - e la loro abilità di pagare gli interessi è ai minimi dal 2008 secondo un report di aprile del Fondo monetario internazionale». Si stima così che negli Stati Uniti il debito complessivo - pubblico e privato - tocchi ormai il 350% del Pil: già di per sé uno stock enorme, ma che se non si cambia rotta è destinato quasi a raddoppiare in trent’anni, secondo il Congressional Budget Office.

Il debito statunitense del resto è in aumento quasi costante dalla fine della seconda guerra mondiale, con interruzioni solo temporanee. La più recente si è verificata durante la crisi finanziaria mondiale: dalla fine del 2008 per quasi cinque anni abbiamo assistito a una riduzione del debito privato. Ma è durata poco. Già dal 2013 la marea ha ricominciato a salire, riuscendo nell’impresa di toccare nuovi massimi in appena quattro anni, spinta anche da tassi ai minimi storici e dalle eccezionali politiche monetarie della banca centrale.

Ora il dubbio è: il forsennato indebitamento degli americani è un segno di ottimismo? Non secondo Heather Boushey, capoeconomista del Washington Center for Equitable Growth, che spiega come in realtà «il debito aiuti le famiglie a pagare cose che non potrebbero acquistare con i loro stipendi». Del resto gli stessi dati macro confermano come la dinamica salariale statunitense resti debole, in particolare per i lavori poco qualificati, pur in presenza di una robusta occupazione.

Naturalmente la marea di debito statunitense resta sotto controllo. Però aggiunge fragilità al quadro economico mondiale, come ha di recente sottolineato anche il colosso del risparmio gestito Pimco (dando per probabile una recessione entro il 2022). Anche perché non si tratta solo degli Stati Uniti: in tutto il mondo - con qualche significativa eccezione - il debito è un mostro sempre più difficile da addomesticare. In particolare quello dei Paesi emergenti, denominato in valuta estera, preoccupa non poco: vale 15 trilioni di dollari e continua a crescere. Non sono buone notizie per un’Italia che, a sua volta, non riesce a imboccare un percorso decisivo di riduzione del debito pubblico.




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