1. Elio Sofia regista del documentario "L'ultimo metro di pellicola" che sarà presentato in anteprima romana il 7 aprile al Cinema Trevi, quali le emozioni quando presenti al pubblico sempre diverso il tuo lavoro? Da Taormina a Los Angeles e ora a Roma, ci racconti il 'viaggio' del tuo doc?
Per me è sempre una grande emozione e una grande paura, rimango in sala a cercare di capire se il pubblico segue il film o si sta annoiando o magari se sta capendo ciò che vede e ascolta e come sempre la scritta “L’Ultimo Metro di Pellicola” che segna la fine del documentario fa seguire l’implacabile giudizio del pubblico, con frazioni di secondo che mi portano a pensare se scatterà o meno
l’applauso o la sala, ancora al buio, si svuoterà lasciandomi solo in sala insieme ai titoli di coda, per fortuna la mia paura è stata fin qui scacciata dal rumore degli applausi. Il viaggio di questo documentario è assai strano, partito come
scommessa di quattro amici, “incalliti cinefili” e “fieri studenti fuoricorso” nei più diversi indirizzi universitari, è diventato un film da presentare a Taormina prima e poi una grande opportunità per andare in America, dove ancora il cinema è considerato come un’industria e quindi dove la logica della meritocrazia ha ancora la
meglio su tutte le altre logiche. Ora dopo non poche difficoltà e dopo aver proiettato più volte negli Stati Uniti, riesco a trovare uno spazio qui a Roma dove questo mio lavoro avrà la possibilità di esser visto e spero apprezzato come già avvenuto oltre oceano.
2. Per raccontare questo epocale passaggio dalla pellicola al digitale sei partito dalla tua città, Catania, come hai scelto cosa raccontare e chi intervistare?
A Catania abito nella famosa Via Giuseppe De Felice, la cosiddetta via del cinema in quanto sede da sempre di tutte le case di distribuzione cinematografica che fin dagli anni ’50 si preoccupavano di far avere “le pizze di pellicola dei film” a tutti i cinema della Sicilia e di parte della Calabria, il tutto in un continuo via vai incessante di
pellicole. Ora tutto questo purtroppo si è ridotto e quindi la scelta sui soggetti da intervistare e i luoghi da visitare diciamo che si è sviluppata da sola, trovando gli ultimi testimoni di quella grande stagione cinematografica che aveva arricchito molti e che aveva reso famosa questa via per gli addetti ai lavori.
3. Quali secondo te i cambiamenti che ha portato il digitale in bene e
in peggio?
Il digitale come già avvenuto con la fotografia ha rappresentato una vera e propria rivoluzione e democratizzazione del mezzo, consentendo a tutti, addetti ai lavori e amatori di poter sfruttare la facilità di reperimento e utilizzo del mezzo digitale; una grande conquista che ovviamente su grande scala viene percepita come un abbassamento della qualità ma che secondo me costituisce invece uno di quei passaggi epocali che il cinema ha già conosciuto nella sua storia passando dal
muto al sonoro e dal bianco e nero al colore. Io ho raccontato la fine della pellicola utilizzando come supporto di ripresa una fotocamera digitale come tante sono oggi in commercio, non avrei potuto minimamente sostenere i costi del girare in pellicola. In futuro diventerà tutto sempre più digitalizzato ma la vera differenza continueranno a farla le idee, quando il mezzo è il tramite per raccontare una storia e se ne sfruttano in modo consapevole le sue peculiarità la differenza si vede sia in digitale che in pellicola.
4. Nel documentario compare l'attrice Tea Falco come presenza eterea,
musa ispiratrice: come sei riuscito a coinvolgerla e che tipo di
racconta regala lei al tuo lavoro?
Con Tea essendo entrambi catanesi doc ci conosciamo da lunga data, quando le nostre carriere erano soltanto sogni confidati; oggi per lei sono piena realtà per me diciamo che comincio a muovere i primi passi. Ho subito pensato alla sua bellezza per fare da contraltare al racconto tutto maschile di proiezionisti e gestori di sala
cinematografica. Vederla scivolare con la sua lunga chioma vichinga lungo i corridoi del museo del cinema di Catania mi è sembrata la giusta presenza per raccontare un mondo come quello cinematografico che per me rimane quanto di più vicino all’arte del sogno. Non volevo che parlasse ma proprio che “scivolasse” tra un ambiente e un altro accompagnando lo spettatore in questo viaggio all’interno dell’ultima
fase della filiera cinematografica, quella che porta la pellicola dai magazzini di distribuzione alla sala di proiezione.
5. Nel tuo lavoro di regista hai delle fonti ispiratrici, dei registi
di riferimento? Quali e perchè?
Sono un “sognatore lucido” e non posso che avere come regista di riferimento il più onirico tra i maestri della settima arte: Federico Fellini. Ogni sera prima delle riprese mi piace leggere passi della sua autobiografia in modo da capire quali aspetti della vita personale possiamo riversare nel modo e nello stile di ripresa. Altro grande
punto di riferimento per me è Pietro Germi la cui bravura, satira e animo grottesco ritengo sia rimasto ineguagliato nel panorama internazionale. Continuo a vedere e rivedere tre suoi film (Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata e Signori e Signori) come allenamento intellettuale di raffinata eleganza e poi non dimentichiamoci che sua è la sceneggiatura, e doveva esserne anche la
regia, del grande Amici Miei.
6. Se dovessi segnalare il tuo documentario preferito quale
sceglieresti e perché?
Non ho un vero e proprio documentario preferito, sono un onnivoro in questo senso, ma devo dire che su tutti si stagliano due lavori estremamente diversi tra loro quali l’opera monumentale sulla storia del cinema “The Story Of Film: An Odyssey” di Marc Cousin che praticamente costituisce un vero e proprio corpo di lezioni
cinematografiche e l’incredibile “Samsara” di Ron Fricke che è magia pura, girato in pellicola 70mm in giro per il mondo, esalta la magnificenza della natura nel bene e nel male e dove pure l’uomo ha un suo ruolo di “dio creatore e distruttore di se stesso”.