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Fabo e' morto

Fabo e' morto
Autore: Editoriale di Padre Maurizio Patriciello
Data: 01/03/2017

Lunedì 27 febbraio, ore 11,40, Fabo, il fratello che in questi giorni abbiamo imparato a conoscere e ad amare è morto. Potremmo dirlo in un altro modo, scrivendo parole che non farebbero che aggiungere dolore al dolore.

Chi crede in Dio ha pregato perché potesse cambiare idea e far ritorno in Italia. Adesso, dopo la notizia che ci ha pugnalato il cuore, continua a pregare perché possa riposare in pace.

Attorno alla sua bara, però, sono vietati gli scontri ideologici, le guerre dei pareri, gli schieramenti pro e contro. Attorno a quella bara c’è solo posto per il silenzio orante, sguardi pensosi, lacrime sincere. I dibattiti si fanno a tavolino, lontano dai letti di dolore e dalla camere mortuarie.

Tu, Fabo, meriti il rispetto riservato a tutti, credenti e non credenti, bianchi o neri, ricchi o poveri, sani o malati. La vita ti ha sorriso molto. Ho visto le tue foto: eri bello, forte, brillante. Mai avresti immaginato quello che sarebbe accaduto dopo. È bastato un niente ed è cambiato tutto. La vita che ti era stata amica, all’improvviso ha indurito il volto. Si è fatta estranea, arcigna, cattiva, avara.

Ha rivoluto indietro molto di quanto ti aveva donato. Molto ma non tutto. Non avrebbe potuto perché c’è un sacrario in ognuno di noi, un tabernacolo, uno scrigno prezioso dove a nessuno è permesso di entrare. Nemmeno alla sofferenza, al dolore, allo scoraggiamento.

Alla bellezza, alla giovinezza, alla ricchezza. È il luogo in cui ci accorgiamo di essere mistero a noi stessi, di non essere padroni di niente perché tutto abbiamo ricevuto.

Chi ha il dono della fede alza lo sguardo verso il cielo e mormora: « Padre nostro … sia fatta la tua volontà». Sempre, quando ci sorride e quando ci schiaffeggia. Il bisogno di un Padre lo avvertiamo tutti, anche chi si ostina a credere che non ci debba essere.

Occorre scegliere se goderne la presenza o rimpiangerlo con nostalgia. La fede non ci dice tutto. Il Tutto ci sarà rivelato dopo. Perché ci sarà un Dopo, una Pienezza, un Oltre. Dal primo istante del nostro concepimento, quando ancora eravamo un invsibile puntino, ci siamo trasformati milioni di volte.

L’ ultima grande trasformazione sarà la morte. La mia, la tua, la nostra. E quella di coloro che verranno dopo e dopo ancora. La vita è preziosa, unica, originale. Sempre. Con il dolore gli uomini debbono imparare a convivere fin dalla più tenera età, mettendo in conto che non lo sconfigeranno mai. Possono solo alleviarlo, allegerilo, o, come Gesù, assumerlo. Il dolore condiviso diventa più sopportabile, più leggero, più umano.

La vita è bella ma terribilmente fragile. Stupenda ma anche tanto faticosa. La battaglia per vivere la affrontiamo fin dal grembo materno. Siamo nati grazie alla misericordia dei nostri genitori ai quali mai smetteremo di dire grazie. I limiti li affrontiamo fin dalla più tenera età. Anche oggi nella nostra bella Italia c’è gente che non ha un pane da mangiare. E soffre. Ci sono bambini contesi tra un papà e una mamma che non si vogliono più bene ma che loro sognano abbracciati sotto lo stesso tetto.

E si sentono dilaniati. Ciro, dodici anni, mi disse: « Mi sento un estraneo a casa di mia mamma che vive col suo compagno e il figlio che hanno avuto. Da mio padre è la stessa cosa. Io mi sento sempre a metà. Nessuna casa è casa mia … ». Deve essere terribile sentirsi a metà. Fuori luogo dappertutto. Lino si è lasciato distruggere dalla droga. Sua mamma ha lottato e sofferto, pregato e implorato, ma Lino non ha voluto, non ha saputo liberarsi dalle grinfie degli stupefacenti. Ormai è agli sgoccioli, gli restano solo pochi mesi di vita. Mena per quel figlio si è consumata. Luciano se ne andò a sedici anni divorato dalla leucemia.

Per Mariella, la mamma, una sofferenza atroce. Una notte, due mesi dopo la morte di Luciano, Pasquale, l’ altro figlio, fu ucciso da un’ auto pirata. Si soffre nel corpo e nel cuore, nell’ anima e nello spirito. Si soffre per un amore perduto; perché la camorra, la mafia, il terrorismo, vorrebbero rubare i tuoi spazi, la tua libertà, i tuoi diritti. Chi può dire se soffre di più una ragazza tradita dal grande amore della sua vita o la sua amica affetta dall’ anoressia? Il dolore. Dobbiamo imparare a parlarne e scriverne con più pudore.

Dobbiamo avvicinarci a chi soffre a piedi scalzi, come fece Mosè davanti al Roveto ardente. L’ ammalato è terra sacra. Se ogni uomo è un mistero, l’ uomo che soffre è un mistero avvolto nel più inaccessibile dei misteri. La dignità umana non viene meno quando il corpo si ribella e smette di obbedirci.

Questa è una terribile menzogna. Al contrario, cresce e si sviluppa a dismisura. La dignità non muore nemmeno con la morte. I fratelli gravemente invalidi richiamano alle proprie responsabilità medici e infermieri, parenti e amici, cittadini e politici, governo e parlamento, filosofi e teologi.

La storia di Fabo merita rispetto. La sua vita merita rispetto. La sua morte merita rispetto. A nessuno però è permesso di lavarsi le mani a buon mercato davanti al mistero del dolore. Perché questo, e solamente questo, è il nodo da affrontare. Non possiamo volgere il nostro sguardo altrove. Non possiamo nasconderci dietro il paravento della “buona morte”. Non una “buona morte”, ma una buona vita meritano le sorelle e i fratelli che soffrono nel corpo o nello spirito.

E noi - tutti, tutti - abbiamo il dovere, l’ obbligo di farci prossimo, lenire le loro sofferenze, curarli nel migliore dei modi, tenere loro compagnia. Rimanere al loro capezzale.

Per imparare a vivere.

Ripetere loro mille e mille volte che ci sono cari. Che abbiamo bisogno di loro. Speriamo di avere imparato la lezione e compreso che nell’ agenda politica, nel programma delle spese sanitarie, i pazienti affetti da gravissime patologie vengono per primi.

Proviamo vergogna per il denaro che spetta loro di diritto e che invece viene sprecato per cose inutili, o, addirittura, rubato da gente senza scrupoli.

Non lasciamo soli i nostri compagni di viaggio che soffrono. Hanno bisogno di noi, della nostra forza, della nostra caparbietà, della nostra speranza. Della nostra debolezza. San Paolo: « Quando sono debole è allora che sono forte». Insieme, siamo nati per stare insieme. Non possiamo cedere. Metteremmo a rischio la pietà. Terribile, pericoloso, disumano, sarebbe il giorno in cui dovesse spegnersi, la pietà. Allarghiamo, invece, a dismisura il cuore per farle più spazio.

Perché “ alla sera della vita ciò che conta è avere amato”.




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