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Trump: una trappola di stampo fascio capitalista

Trump: una trappola di stampo fascio capitalista
Autore: Lucio Giordano - Redazione Esteri
Data: 11/11/2016

Forse gli americani non si rendono in conto in quale tranello siano caduti votando Donald Trump. O meglio, se ne sono già resi conto i giovani  che avrebbero voluto Bernie Sanders alla Casa Bianca:  in decine e decine di migliaia,  sono scesi in piazza ieri per le strade degli Stati Uniti, protestando contro quello che non considerano il loro Presidente. E se è democrazia accettare la vittoria del miliardario xenofobo è altrettanto democratico manifestare il proprio dissenso. Punto

Sono stati loro, i giovani, insieme con gli ispanici e i neri a non votare la compromessa Hillary Clinton. Perchè ogni ora che passa appare sempre più evidente che quella di due giorni fa  non è stata la vittoria di Trump ma la sconfitta della candidata democratica. Dieci milioni in meno di voti per il partito di Obama, rispetto al 2008. Qualcosa vorrà pur dire. Vuol dire che i progressisti veri  si sono astenuti dal voto.

Perchè è sempre più lampante che la sinistra immersa e scolorita nell’ammoniaca, che va a braccetto con i poteri forti (banche, multinazionali, finanza), non piace. Perchè non piace quella puzza di establishment che ha preso negli ultimi vent’anni.

La sinistra deve fare la sinistra, poche storie. Deve stare con la classe operaia, con la borghesia illuminata, con il proletariato, con  i poveri e i diseredati. Questo è il ruolo della sinistra, questo è l’unica sinistra che vince per davvero. L’altra, quella di Hollande, di Renzi, dell’Spd, del partito socialista spagnolo che appoggia il terribile governo Rajoy è una destra mascherata da sinistra, unita in un matrimonio indissolubile con i poteri forti.

Lo squallido equivoco Blair, insomma, è stato smascherato. Finito, kaputt. Lo hanno capito tutti, ma proprio tutti. In tempi non sospetti me lo ripeteva il grande Ken Loach, tutte le volte che mi incontrava. ” Blair è peggio della destra”, affermava sconsolato. E io all’inizio non sapevo se dare o meno ragione al regista di Io Daniel Blake. Adesso posso dirlo: aveva ragione, senza mezzi termini.

Ed è proprio per questo gioco apertamente smascherato, che la finanza fascio- turbo- liberista ha dovuto gettare sul tavolo la carta Trump. Una carta della disperazione che l’ ha costretta a cambiare le regole  in corsa, a mostrare il vero volto dei poteri forti, a perdere d’un botto l’opzione più intrigante: tenere tranquille le masse con un finto governo progressista. Ora non è più possibile per wall street prendere in giro la gente in questo modo, ovvio.

Pensateci bene, poi: se Trump fosse stato  un personaggio davvero indigesto, anti- sistema, le borse sarebbero crollate e avrebbero continuato a crollare nei giorni a venire. E invece hanno tenuto botta benissimo. Segno che, a dispetto del disagio della popolazione americana che aveva votato ingenuamente genuinamente  per il miliardario in segno di protesta e che avrebbe appoggiato anche paperino, pippo e topolino supershow pur di lanciare segnali forti e chiari all’establishment , Wall street il suo miliardario se lo tiene ben stretto.

Trump insomma  fa parte a pieno titolo della famiglia capitalistica. Tranquilli: in fondo ci siamo caduti tutti nel tranello, all’inizio, pochi secondi dopo la proclamazione del nuovo presidente degli Stati Uniti. Tutti a credere al vaffa election day contro il sistema. Abbiamo abboccato , in buona fede. Trump, a vedere la situazione in controluce, è infatti protetto dalla potentissima lobby delle armi, ha fatto soldi a palate, e secondo molti in maniera tutt’altro che corretta. Si è sempre rialzato dai fallimenti delle sue aziende. Un altro sarebbe crepato economicamente. Lui no. Lui in fondo era un predestinato.

Il 21 agosto del 2015 ero tra le montagne della California, a Mammoth lake, al confine con il Nevada. La sera su Fox news davano il primo comizio importante del miliardario americano, se non sbaglio in Florida. L’attesa era spasmodica: un’ora al comizio di Trump, mezz’ora al comizio di Trump, scandiva con ansia gioiosa il conduttore.  Un endorsement in piena regola. Quando entrò in scena lui, la gente si scaldava mentre Trump inveiva sempre più decisamente contro gay, islamici, immigrati, comunisti, Obama. Finanche  contro i poveri homeless, disseminati in quantità industriale per gli Stati Uniti. Sembrava un prodotto costruito in laboratorio, Donald. Perfetto nei gesti, nel tono della voce. L’utile uomo forte, reazionario quanto basta, amico del Ku Klux Klan. Meglio di così non si poteva.

Mentre lo guardavo con quegli improbabili capelli giallo canarino, coperti da un cappellino da baseball, pensai: questo va a finire che ce lo ritroviamo come Presidente degli Stati Uniti. Fu un attimo. Ricacciai il pensiero, convinto che la corsa alla Casa Bianca era appena iniziata,  ed era lunghissima. E poi c’era già un capo di stato designato: Hillary Clinton. Eppure, per tutta la campagna elettorale, quell’immagine di americani bianchi e arrabbiati, che immaginavo con la pistola sotto il cuscino,  scatenati alle parole di Trump, non mi ha mai abbandonato completamente. Fino a quando Donald non è diventato davvero Presidente degli Stati Uniti.

Era il piano B di Wall street, nel caso il piano A, più comodo e scontato, non fosse riuscito. E non poteva riuscire, con un Paese che aveva aperto gli occhi sul conto della Clinton, con un mondo che non crede più alla sinistra annacquata. La scelta di Trump, che ha stranamente sbaragliato con estrema facilità  la concorrenza di tutti i candidati  repubblicani, da Rubio a Cruz, era dunque obbligata. Serviva un uomo capace più degli altri di parlare alla pancia ignorante  e disperata del Paese, un miliardario, un conduttore tv, uno bravo a raccontare storie.

All’america rurale, alla canna del gas, o agli operai senza più lavoro delle grandi città, in una nazione che ha 45 milioni di poveri, costretti a ricorrere quotidianamente  ai piani di sussistenza alimentare per non morire di fame, serviva un ‘affabulatore’, capace di promettere, magari senza poi mantenere. Soprattutto capace di ascoltare il dolore interiore e dedicare tempo a quella massa di sopravvissuti alla grande crisi del 2008. Loro a Trump chiedevano il ritorno ad una nazione capace di toglierli dalle difficoltà e Donald, ad onor del vero,  per loro a parole si è speso tantissimo, arrivando a tenere cinque comizi in altrettanti Stati, solo nell’ultimo giorno di campagna elettorale. E fa niente se le promesse non verranno mantenute e l’improbabile programma elettorale, Trump non lo rispetterà. L’importante è che fosse un reality show accattivante. E così è stato.

Fino a quando l’America si è risvegliata dal sogno, che ora rischia di trasformarsi in un incubo. La ricetta è sempre la stessa, finanche noiosa: tagli alla sanità pubblica, taglio delle tasse per i più ricchi, altre privatizzazioni, assalto deciso ed immediato all’Obama care,  una squadra di governo che, se confermata, sarà composta da banchieri, finanzieri, falchi della politica, come Newt Gingrich o quel Rudolph Giuliani, sindaco sceriffo di New York. Cosa vi credevate: investimenti pubblici e nuovi posti di lavoro? Non tarderanno molto gli americani a rendersi conto di esser finiti dalla padella Clinton, alla brace Trump.

Dunque , tranquilli, nessuno lo ucciderà, come capitò a Kennedy. I poteri forti sono  completamente con lui, anche se la stampa in questi mesi ha remato tutta a favore di Hillary, perdendo ulteriore credibilità per non aver capito, come ammettono  ora al New York times,  quello che stava capitando nella pancia del Paese.  E se, come prevedibile gli Stati Uniti rischiassero la guerra civile, nessun problema: uno scandalo tra i tanti potenziali scandali in cui è implicato, e Trump andrebbe a casa. I guai però  a quel punto sarebbero tutti per wall street, senza più carte da giocare. Vorrebbe dire  che anche il fascio- liberismo ha fallito. Cazzi amari: il sistema capitalistico imploderebbe. Dai trionfi del crollo del muro di Berlino, alla sconfitta  del muro anti- immigrati al confine con il Messico. E tutto in poco meno di 30 anni.




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