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Abruzzo: turisti per un giorno con tappa a L 'Aquila

Abruzzo: turisti per un giorno con tappa a L 'Aquila
Autore: Susanna Schivardi - Redazione Cultura
Data: 13/08/2015

Una domenica, andata e ritorno in giornata. Niente di più semplice per visitare alcune zone dell’Abruzzo e scappare dal caldo cittadino. Cercare il fresco per trovare anche luoghi che hanno sempre da raccontare e raccontarsi. Ovindoli è meta arcinota per sciatori e non. A quasi 1.400 metri di altitudine, offre ai suoi visitatori una temperatura perfetta d’estate e adatta per le discese invernali quando cade la neve e tutto si imbianca. Il borgo più antico è intarsiato di stretti vicoli dove i residenti si affacciano dalle loro dimore, per dare vita a chiacchiericci domenicali che riempiono il silenzio di risa e ricchi pranzi. Profumi di brace e altre prelibatezze invogliano il forestiero a cercare una taverna dove fermarsi a mangiare e non è difficile trovarne una capace di sfamare ogni tipo di appetito.

Tra le varie che si affacciano sulla strada, ne troviamo una, La Lanterna Di Brontolo, delizioso ristorante dove il proprietario si prodiga a snocciolare i piatti del menù con tanto di spiegazione attenta e dettagliata sulla preparazione dei medesimi. Antipasti con salumi e formaggi locali, maccheroni alla chitarra del gregoriano, cinghiale con polenta integrale, tutto innaffiato da un Montepulciano D’Abruzzo, San Michele, di 13,5 gradi. Per finire il classico: ratafìa fatta in casa e la famosa genziana che, come dice il proprietario, non si potrebbe raccogliere ma alla fine lo fanno tutti.

“Ci vuole abilità nel raccoglierla, non bisogna rovinarla altrimenti non ricresce – ci spiega – ma chi sa farlo, di solito la raccoglie a novembre quando ormai la pianta dorme e sarà pronta per rifiorire nella stagione successiva, a primavera”.  Per farne uno o due litri ne bastano 40 grammi. Il procedimento è lo stesso della ratafìa, e consiste nell’utilizzo, per la fermentazione, di zucchero o di Montepulciano o di alcool puro. Usciti dal ristorante non c’è più molto da vedere, il paese è fatto per i residenti che si conoscono tutti e trascorrono pomeriggi interi seduti sulle seggiole dei bar. Prossima meta Campo Felice.

D’estate il paesaggio è dechirichiano, immobile e scarno, con una luce traversa che lo fa quasi sembrare minaccioso, soprattutto senza il sole. Immense piane sovrastate dalle montagne su cui a malapena si riconoscono gli impianti di risalita dismessi. Laddove d’inverno la neve riscalda l’orizzonte e lo fa rivivere di gente e viavai, l’estate e il sole ne smorzano i contorni, rattrappendo la bellezza insita nelle linee di contorno. Con trentasei chilometri di strada tutta curve si giunge a L’Aquila. Nella parte bassa, dove ancora qualche costruzione ha resistito alla furia della natura, c’è una villetta, che saluta il visitatore con queste parole: hunc quicumque venis, fauste et bene veneris, hospes. Il latino rende grazie alla frase di buon auspicio ma nonostante lo sforzo, la città è desolante.

Ci si addentra in un cunicolo unico fatto di transenne e puntellature nei muri cadenti delle costruzioni ormai in disuso. La mano dell’uomo che tenta l’impossibile sembra non essere abbastanza per sostenere tanto cemento in via di decomposizione. Le crepe stanno lì a ricordare a tutti la caducità della città ma anche della vita. Quel 6 aprile 2009 riappare in ogni viottolo, in ogni arcata, in ogni fiorone di chiesa che echeggia la sua passata gloria. Non c’è essere umano che passeggi, se non, ad un tratto, un gruppo gioviale di ragazzi, che stranamente cantano. Un solo bar è aperto, e ai due euro per due caffè vorresti aggiungere tanti altri milioni di speranza perché questa città si rialzi quanto prima.

Non bastano i pannelli lungo le arcate che spiegano il piano di ricostruzione con in chiaro le cifre stanziate. Ogni angolo è pieno di immondizie abbandonate a infradiciate dall’acqua, che in questa giornata di agosto cade incessante sulla città fantasma. Dopo sei anni tutto sembra fermo a quel giorno, a quell’ora in cui la furia della natura ha scatenato sé stessa distruggendo secoli di storia. La zona rossa è chiusa al transito, sembra abbandonata lì, dietro quei valichi inaccessibili e la fermezza del giorno di festa, la vacuità della piazza e i locali svuotati con a terra rimasugli di recenti guazzabugli lasciano il visitatore perplesso e desideroso di tornare alla spensieratezza dell’afa estiva.

Sulla strada che porta via da L’Aquila ancora cartelli pubblicitari con slogan festosi e promesse di concerti e iniziative musicali. Una recinzione sul ciglio della strada è ricolma di foto di ragazzi, fiori, orsacchiotti di peluche, oggetti come ricordo, monito alla non indifferenza, che gli stanziamenti per la ricostruzione non siano solo l’ultima voce degli ultimi provvedimenti. Questo sembrano chiedere i sopravvissuti, coloro che dopo quel giorno hanno visto cambiare la loro vita per sempre. 




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