Che cos'è la bellezza? Con questa domanda Claudio Strinati saluta il pubblico della Sala Sinopoli, all'Auditorium Parco della Musica. Lo fa attraverso un video registrato in cui presenta il ritratto di Innocenzo X, realizzato nel 1650 da Diego Velàzquez, l'artista che sapeva ritrarre soggetti brutti e farne dei quadri belli.
Passa qualche minuto e Strinati sale sul palco, questa volta in carne ed ossa. Il pubblico lo accoglie con un lungo applauso; lui è a suo agio, si vede. E ne ha anche il diritto, aggiungerei. Basta digitare il suo nome su Google per scoprire che questo signore in giacca e cravatta e dall'aria simpatica lavora da quarant'anni al Ministero per i Beni Culturali e per undici è stato Sovrintendente al Polo museale romano. A lui dobbiamo la riorganizzazione di gioielli come la Galleria Borghese e la pubblicazione di più di trenta libri sulla storia dell'arte. Insomma, è uno che di arte se ne intende. Eppure, confessa subito: la risposta a quella domanda lui non ce l'ha.
E' proprio a questo interrogativo che cercarono di rispondere, seppure in modo diverso, Diego Velàzquez e Guido Reni. Il primo nacque a Siviglia nel 1599 e per tutta la vita lavorò per un solo committente: il Re di Spagna Filippo IV. Iniziò la sua formazione nella bottega di un grande artista letterato dell'epoca, Francisco Pacheco.
Dopo sei anni di apprendistato superò l'esame per la pratica dell'arte e, come da tradizione, sposò la figlia del suo maestro, Miranda. Fin da subito rivelò una passione per la rappresentazione della realtà; i suoi quadri raccontano semplicemente il reale, la quotidianità con i suoi soggetti non necessariamente belli. Basti pensare alla tela "Vecchia che cuoce le uova": i soggetti (una vecchia signora e un ragazzo popolani) non sono esteticamente belli, così come l'ambiente in cui vivono.
Eppure il quadro non è brutto, anzi. Velàzquez ebbe la grande capacità di raffigurare anche i soggetti più umili in modo regale, senza per questo rinunciare al realismo. A differenza di Guido Reni, che invece la bellezza la creò, selezionando gli elementi più belli della realtà. Prendiamo come esempio "La crocifissione di San Pietro", realizzata tra il 1603 e il 1604. Il momento è drammatico: Pietro viene crocifisso a testa in giù, torturato dai suoi carnefici che agiscono con una freddezza disumana.
Le figure sono vere ma idealizzate: i corpi dei torturatori, ad esempio, sono anatomicamente perfetti. La scena è cruenta ma ha qualcosa di eroico, di mitico. Al momento della realizzazione di quest'opera Guido Reni si trovava a Roma; vi si era infatti trasferito da Bologna, città in cui nacque nel 1575, in occasione del Giubileo del 1600.
Personalità instabile e complessa, Reni visse sempre in conflitto con i suoi numerosissimi committenti, per cui non nutriva alcuna stima e che reputava incapaci di apprezzare l'arte. Durante il suo soggiorno a Roma entrò nelle grazie di Scipione Borghese, per cui realizzò, nel 1614, una delle sue opere più apprezzate: "L'aurora". Il grande affresco, realizzato per decorare la volta del Casino Pallavicini, s'ispira alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. L'opera prende infatti avvio con Goffredo da Buglione che, all'alba, riceve un messaggio divino che lo condurrà alla vittoria.
Guido Reni si spostò numerose volte da Bologna a Roma, recandosi anche a Loreto, Mantova e Napoli, alla ricerca d'importanti committenze che però spesso non otterrà. Nel 1625 si recò di nuovo a Roma; per il nuovo Giubileo infatti l'amministrazione papale intendeva affrescare la Basilica di San Pietro con le storie di Attila e del Papa che ne fermò l'invasione. All'ultimo momento, però, la committenza si rifiutò di firmare il contratto; Guido aveva ormai fama di uomo collerico e giocatore d'azzardo. Venne però notato dall'ambasciatore di Spagna, che gli commissionò "Il ratto di Elena". Successivamente l'artista minacciò però l'ambasciatore e venne quindi incarcerato; una volta uscito di prigione, iniziò la fase discendente della sua carriera.
E' qui che i destini di Guido Reni e Diego Velàzquez s'incrociano. L'ambasciatore spagnolo per cui Reni realizzò il quadro conosceva infatti il giovane Diego e sapeva che egli aveva intenzione di recarsi in Italia per migliorare la propria arte. Nel 1629 Velàzquez chiese licenza a Filippo IV e si recò in Italia, accompagnando in missione diplomatica Ambrogio Spinola, capo delle forze armate spagnole; visitò Genova, Milano, Venezia, Ferrara, Bologna, Loreto e, finalmente, Roma. Qui ebbe l'occasione di vedere dal vivo le Stanze di Raffaello e la Cappella Sistina di Michelangelo. L'esperienza lo cambierà profondamente: capirà infatti che l'arte serve per raccontare delle storie. In onore di Spinola, Velàzquez realizzò nel 1634 "La resa di Breda", grande tela che celebra la presa della città di Breda da parte delle truppe al comando di Spinola. Nonostante l'evento storico sia stato drammatico, l'autore spagnolo rappresentò il condottiero in un gesto di profondo rispetto verso lo sconfitto; Spinola infatti scende da cavallo, si toglie il cappello e compie un gesto di sostegno verso l'avversario. Anche in una scena cruenta, la nobiltà dei personaggi non viene trascurata. Questo ci riporta al senso della bellezza proprio di Guido Reni.
A questo punto viene consegnato un biglietto a Claudio Strinati. Lui scherza: << Indovinate cosa c'è scritto qui sopra? Che dobbiamo parlare de Las Meninas!>>. Il tempo stringe e dunque è il momento del gran finale. "Las Meninas" (o, dal titolo originale, "La famiglia di Filippo IV") è forse la più famosa opera di Velàzquez. Realizzata nel 1656 ed oggi conservata al Museo del Prado di Madrid, ha impegnato ed impegna tutt'ora i critici di tutto il mondo. A sinistra della scena l'autore ha rappresentato sé stesso, nell'atto proprio della realizzazione di un quadro. Nello specchio sullo sfondo sono riflessi il re e la regina che entrano improvvisamente nella stanza, mentre la loro figlioletta, l'Infanta Margherita, è circondata dalle damigelle d'onore e dalla nana che si occupa del suo divertimento.
Sullo sfondo, un uomo sta uscendo dalla stanza. Alla vista dei reali, le damigelle s'inchinano, mentre Margherita guarda i genitori con lo sguardo furbo e provocatorio dei bambini. La scena è quotidiana, ma appunto per questo la domanda che ci si pone è: perché Velàzquez realizzò questo quadro? Che cosa voleva comunicare? Gli ultimi cinque minuti della lezione sono sublimi, il pubblico segue Strinati nel suo ragionamento senza emettere un fiato. Sulla tela l'artista ha rappresentato sé stesso nell'atto di dipingere proprio questo quadro il quale a sua volta non rappresenta altro che sé stesso, in un gioco di specchi riflessi infinito. E' la rappresentazione di un attimo che non tornerà mai più. Lo stile è preciso, ma non nitido, i contorni sono in dissolvenza, i volti dei reali non si distinguono bene; è l'effetto del tempo che cancella la memoria, se non c'è un artista pronto a fermare un momento unico ed irripetibile. Come Guido Reni, convinto che fosse necessario avere idea sia del bello sia del brutto, il quale però andava formulato in modo tale da non poter essere ricordato. Se quindi nessuno sia in grado di dire cosa è la bellezza, possiamo affermare di sapere dove essa sia: negli occhi di chi guarda.