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A 50 anni dall'omicidio Jfk il ricordo dell'Auditorium (e di Veltroni)

A 50 anni dall'omicidio Jfk il ricordo dell'Auditorium (e di Veltroni)
Autore: Nostro inviato Gabriele Santoro
Data: 23/11/2013

 

22 novembre 1963, in Inghilterra esce il secondo album dei Fab Four “With the Beatles”. E a Dallas, Texas, i destini di John Fitzgerald Kennedy, Lee Harvey Oswald e Abraham Zapruder  - in qualità di cineamatore che riprenderà la scena - stanno per incrociarsi in un momento che cambierà il mondo, o che comunque può considerarsi uno spartiacque fra un “prima” ed un “dopo”. A cinquant’anni dall’assassinio dell’allora presidente degli Stati Uniti, l’Auditorium Parco della Musica e Walter Veltroni hanno omaggiato la figura di Jfk con l’appuntamento speciale delle “Lezioni di storia”. Non certo un’inchiesta sulle cause dell’omicidio o su eventuali altri assassini e mandanti, del resto non si è arrivati a nulla di concreto in mezzo secolo, novanta minuti non avrebbero cambiato molto. Più un’occasione per capire come in meno di quattro anni si sia creata un’icona, pur con i suoi difetti, della politica a stelle e strisce.

Certo è che molte cose non tornano, per chiudere la parentesi sul possibile complotto da opporsi all’azione isolata di uno squilibrato. Non tanto il movimento della testa di Kennedy, che pare colpito frontalmente anziché da dietro, dove si trovava Oswald, già che esperti di balistica hanno confermato che quel tipo di contraccolpo non esclude la posizione di tiro dal noto magazzino di libri. Più che altro per l’assenza di un verbale che raccolga la testimonianza di Oswald e per la rapida esecuzione subita da parte di Jack Ruby, legato agli ambienti della malavita, ufficialmente per vendicare la morte del capo dello Stato. Altre teorie mettono addirittura dietro tutto quanto chi poi ne trasse vantaggio, il vice Lyndon Johnson, guarda caso texano, ma si finirebbe in una dietrologia paranoica che ha dell’assurdo.

Il ministro della difesa dell’epoca, Robert McNamara, commentando la sua prematura scomparsa si riferì ad un “senso di incompiutezza, la più terribile ed affascinante eredità”. Già perché l’avvento di Kennedy diede una nuova speranza al mondo intero, non solo perché “giovane e fresco”, usando le parole di Veltroni, ma anche perché dietro alla retorica tipicamente americana “c’erano una solidità politica ed un pragmatismo” sintesi e figli degli anni ’60. Musicalmente ma più in senso lato come concetto il decennio poteva essere rappresentato dai Beach Boys e da Bob Dylan: “da una parte il divertimento lieve, dall’altra la coscienza che c’erano molte cose da cambiare e la consapevolezza che si era in grado di farlo”.

Dietro il suo discorso di insediamento si racchiude l’idea di democrazia che seguiva la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, “un processo basato sullo scambio e sulla responsabilità individuale. Lo Stato non è lontano, ma si inizia a costruire dal basso”. Anche in relazione all’Unione Sovietica i toni erano distensivi, anche se poi Kennedy si troverà a dover usare fermezza assoluta nella crisi missilistica. Da anti-comunista non si riteneva però nemico dell’Urss, la considerava un interlocutore che “vorrebbe farsi avversario” degli Stati Uniti - siamo ben lontani dall’”impero del male” di reaganiana memoria. Sa che lo scontro frontale porterebbe alla guerra nucleare, probabilmente l’ultima. E fa di tutto per evitarlo.

Di rivali del resto ne aveva abbastanza in casa, nonostante cercasse di prendere le “migliori teste” della generazione, indipendentemente dal colore politico. Per prima la Cia, che lo convinse a tentare la fallimentare invasione della Baia dei Porci ma rimase delusa dalla mancata copertura aerea che avrebbe impegnato gli Stati Uniti in un’occupazione totale di Cuba. Poi Jimmy Hoffa, sindacalista nel settore dei trasporti legato alla mafia, scomparso misteriosamente nel 1975, sotto indagine per un’attività dal giro di denaro crescente. Quindi i produttori di acciaio, che avevano alzato i prezzi violando un accordo e facendo lievitare l’inflazione, con gravi conseguenze.

A dare molto fastidio fu anche la battaglia per i diritti civili, quando la segregazione razziale era ancora in voga negli stati del sud e non particolarmente combattuta al nord. James Meredith era un ragazzo di colore che rivendicava l’accesso all’Università del Mississippi, impedito addirittura dal governatore Barrett, spaventato dalla perdita dell’elettorato. La battaglia divenne nazionale per l’intervento in prima persona di Kennedy, ci furono scontri e anche dei morti, ma alla fine la resistenza fu piegata. E questo nonostante si fosse ad un anno dalle votazioni del 1964, considerando che un solo Grande Elettore del sud era con il Presidente e che fra gli afroamericani si recava alle urne appena una minoranza. Analoga situazione avvenne anche in Alabama, stavolta contro il governatore Wallace.

“John ed il fratello Robert affermarono questi principi per cambiare l’opinione pubblica”, continua Veltroni, tessendo rapporti con istituzioni e mondo associativo, utilizzando i media e soprattutto la tv – fattore che nella sfida con Nixon fu decisivo, quando il bell’aspetto contribuì al consenso -  e la “questione morale” tornò prepotente cento anni dopo un certo Lincoln.

“La politica è una giungla fra il fare la cosa giusta ed il restare in carica, fra il bene del singolo e quello di tutti”, diceva Arthur Schlesinger, storico e saggista. E misurarsi ogni giorno con i gruppi di potere è certamente un’operazione complessa. Fu questo ad alienare a Kennedy molte delle simpatie influenti in patria e di conseguenza ad alimentare le voci del complotto. “Un tipo di politica che per John e dopo Robert fu una ragione di vita”, chiude Veltroni, “ma anche una ragione della morte”.




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