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Recensione: Tre Fratelli - Roma, Teatro Palladium

Recensione: Tre Fratelli - Roma, Teatro Palladium
Autore: Recensione della nostra inviata Susanna Schivardi
Data: 28/05/2019

In scena il 23 e il 24 maggio al Palladium, Tre Fratelli fa parte della rassegna OnStage!festival che collega direttamente l’America all’Italia in un gemellaggio di intenti artistici ricco e vario.

Opera presentata in Italia per la prima volta, Tre Fratelli (The siblings play) di  Ren Dara Santiago, per la traduzione di  Michela Compagnoni e la collaborazione del Dams, la partecipazione di Simone Bobini, Teo Achille Caprio, Michele Ferlito, Giulia Gizzi  e con  Barbara Folchitto, regia di  Tomaso Thellung. Voluta come realizzazione scenica di una lettura presso il teatro Argentina lo scorso anno, il testo viene tradotto con cura e dedizione partendo da quella che viene descritta come realtà suburbana del Bronx, in cui disagio e infelicità sono protagonisti assoluti. Immaginiamo lo slang americano, con questi protagonisti di colore, marchiati in jeans calato sotto le ginocchia, magliettacce larghe, imbevuti di rap, sguaiati e molto poco borghesi.

In Italia invece troviamo una trasposizione goffa e pretenziosa, la famiglia disagiata viene sospinta in un ménage tra il piccolo borghese e il drammino psicologico alla nostra maniera, in cui il più piccolo dei tre fratelli gioca addirittura a tennis, la sorella più grande è un mix di virtuosismo, scrive poesie, e puttanaggine, si concede ovunque e con chiunque in qualsiasi bar della periferia, ogni tanto dice “cazzo”, ma poco convinta e seguita dagli sbeffeggiamenti della madre che, pur sembrando lei stessa un prodotto della strada, pretende che i figli si diano un’aria.

Così la ragazza che dice “cazzo” anche fin troppe volte (nel testo) decide di prendersi cura del fratello minore, perché il maggiore intanto se ne è andato a fare il barman in centro e vive in un bel loft che può evidentemente permettersi. I tre si riuniscono ad un certo punto, perché dopo otto mesi il maggiore, Leone, ritorna a casa, preoccupato per le sorti famigliari. La madre dei tre è una sconsiderata, o almeno così la reputano i figli, una che esce tutte le sere per trovare un po’ di affetto e che ha cacciato il marito due anni prima per averlo scoperto fornicare con un’amica.

Questo il motivo scatenante della rabbia e dell’ira della figlia, affezionata ad un padre a quanto pare tossico e nullafacente, ma tuttavia, “è sempre stato il mio migliore amico”, come dice spesso nel corso del dramma, anche se una volta lo ha visto tentare il suicidio e lei si è spaventata tanto.

Quindi riassumendo, il padre insulso e fedifrago cacciato di casa diventa la vittima, mentre la madre che lavora tutto il giorno per i figli è la super-colpevole, tanto che alla fine lascia i tre figli al loro destino e se ne va. La ragazza continua ad avere incubi e nel frattempo si invaghisce del fratello maggiore “perché solo con te mi sento piena”, ribadisce spesso. Questo concetto di vuoto e pieno dell’anima che ritorna come un sillogismo o come un dogma per tutto il tempo. Alla fine anche il piccolo fratello, che intanto si alza alle cinque del mattino per giocare ai videogiochi ma si sente a tratti un novello filosofo, arrancando su temi per lui troppo ambiziosi, si sente vuoto e va a vivere dal padre, confuso dagli abbracci e dagli isterismi della sorella che si alternano con fin troppa audacia. Sul finale Leone si allontana perché tentato da una relazione carnale con la sorella, che quindi rimane da sola con le sue poesie lente, lunghe e vuote anch’esse.

Due ore di dramma senza intervallo ma con tante disfunzioni sia formali che sostanziali. Un mattone psicanalitico che farebbe uscir pazzo chiunque senza soluzione, lentezza nella recitazione lo rendono ancor più insopportabile, le movenze a scatti, poca fluidità, alti e bassi vocali come d’accademia alle prime armi, un coacervo di insensatezze famigliari e incongruenze sociali, come pretendere di far rivivere una famiglia italiana disorientata dal dramma in un quartiere come il Bronx di cui non si sente nemmeno l’odore. Ma solo qualche discorsetto superficiale del ragazzino che nomina ispanici o neri come parlasse di popcorn al cinema. Riprovateci ancora, ma la prossima volta con serietà. Cala il sipario e gli applausi si strappano per dovere ma senza piacere. 




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