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E’ solo la fine del mondo ha una pelle canadese che sa di grigio, freddo e glaciale, ma la carne è torrida e trasuda calura afosa e scivolosa. La produzione ha il marchio francese, per l’intimismo della narrazione, luogo eletto in cui il regista rivelazione Xavier Dolan ancora una volta ripropone i soggetti a lui più cari, la famiglia, l’incomunicabilità, la difficoltà dei rapporti umani. Cinque personaggi, Louis, interpretato dallo splendido Gaspard Ulliel, Antoine, un irruento Vincent Cassel in grande forma, Martine, Suzanne e Catherine si incrociano in un labirinto emozionale e incorniciato insistentemente dalle inquadrature strette sui volti, alla maniera di Dolan, che imperversa nei gangli dell’animo quasi a dissacrarne la vitalità. Tratto da una piéce del 1990 del drammaturgo francese Jeanluc Lagarce, il film sa molto di teatro, tutto dialogato, pochissimi esterni, striminziti nel loro puro formalismo senza sostanza. La vita dei personaggi poggia tutta in una serie scoppiettante di dialoghi pesantissimi come macigni, grevi come le colpe dei padri, le mancanze delle madri, le ripicche dei fratelli, le gelosie, la violenza soppressa, il silenzio interiore che fa rumore anche quando tace. Questa manciata di tempo in cui la storia si dimena tra i suoi stessi confini racconta di un uomo che torna a casa dopo dodici anni di assenza, per informare la famiglia della sua imminente morte. Giace implicito il dramma della malattia, mentre si dilata l’esperienza dell’omosessualità senza sfumature edulcoranti, della perdita, dell’incomunicabilità tra mondi che distano miglia e miglia senza sfiorarsi mai, i mondi dei fratelli, Antoine e Suzanne, che viaggiano senza rotta, in orbita sconnessa intorno al pianeta del loro amato e detestato Louis capace di determinare, con la sua assenza, fratture interiori non rimarginabili. Le inquadrature insistono sulle crepe dei volti, sulle loro tensioni senza mai abbandonare il punto di vista del personaggio principale, perché quelli che gli stanno intorno prendono vita da lui, esistono in sua funzione, respirano la sua aria rarefatta. Solo Catherine, cognata di Louis e moglie di Antoine, interpretata da una stentata Marion Cotillard, sembra volersi affrancare da questo miserevole destino, con le sue storie insulse, raccontate male, storie che vorrebbero sapere di vita ma che non lasciano nulla sul fondo del piatto. Una sorsata di nulla , perché anche i momenti in cui i componenti della famiglia sembrano dialogare, non ci si dice nulla, nulla che possa cambiare il corso delle loro esistenze. La difficoltà della comunicazione, l’affettazione di certi discorsi, la leggerezza con cui viene trattata ad un certo punto la morte, la dipartita improvvisa di Louis e la testardaggine di Antoine lasciano un amaro indelebile su quello che avrebbe potuto essere un piccolo capolavoro se solo il regista si fosse concentrato meno sui propri virtuosismi e avesse ascoltato con più attenzione la voce di un cuore ferito, di una libertà oppressa, di un divario incolmabile tra vita e sopravvivenza. I lirismi a cui Dolan ci ha abituato non mancano, sparsi qui e là a spezzare il ritmo incessante dei dialoghi, ma non bastano per impennare e sublimare come nel 2014 ha fatto con la sua penultima pellicola, Mommy, in cui lo spazio dell’orizzonte visivo coincideva anche con la visione del mondo dei personaggi e dei loro drammi interiori. |
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I commenti: | |||
Commento
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Commento di: emilia.urso | Ip:83.73.103.204 | Voto: 7 | Data 21/12/2024 05:42:23 |
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