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Recensione libro: Byron, protagonista simpatico di un libro scritto male

Recensione libro: Byron, protagonista simpatico di un libro scritto male
Autore: Susanna Schivardi - Redazione Cultura
Data: 19/11/2016

Capita spesso di aggirarsi tra i banchi delle librerie alla ricerca di un titolo folgorante, di un autore nuovo dal nome accattivante, e si rimane sconcertati dalla pletora di copertine  accatastate una sull’altra, con ritratti di scrittori di dubbia fama e di ancor più dubbio valore. Sono quelli che vengono editati, anche da case editrici importanti, o per conoscenze, o per soldi o per fama acquisita per altre vie.

Poi ci sono gli scrittori accreditati come tali che si conquistano la palma del merito per uso e costume, per tradizione, per inerzia. Tra i tanti volumi è capitato ultimamente tra le mani la storia di un cagnolino simpatico, “Byron, storia del cane che mi ha insegnato la serenità” di Antonella Boralevi, scrittrice, blogger (che ora va tanto di moda), giornalista e autrice di ben quindici libri per Mondadori Rizzoli e Bompiani.

Non c’è stato modo di leggere tutti questi volumi, nell’arco di una vita si fanno scelte mirate e a volte la Boralevi può sfuggire dall’annovero dei favoriti. La storia di Byron sembrava però un modo semplice e leggero per avvicinarsi a questa decantata scrittrice. Byron è un cagnolino dall’aria molto simpatica come si vede dalla foto in copertina e sta lì a chiamarti bonariamente, che quasi pensi di comprare il libro anche solo per farti due risate leggendo di lui e delle sue vicende. Infatti è pieno il mondo di fortunatissime storie di animali raccontate magistralmente e con audacia. Apri il volume e ti imbatti in questo incipit: “Il mio cane si chiama Byron.

E questa è la prima cosa che ho imparato da lui. Cosa è un nome? Nulla, secondo Giulietta, perché una rosa se non si chiamasse rosa conserverebbe lo stesso il suo profumo. E dunque che Romeo si chiami Montecchi non significa nulla. Tutto, secondo gli antichi, che ci hanno inflitto al liceo la frasetta nomen omen che serviva ai nostri professori per spiegarci che eravamo dei deficienti”. Si pensava di aver acquistato un romanzo su un cane e non un concentrato di banali formalismi depredati da linguisti e latinisti che ne hanno fatto un uso più intelligente.  Ci accorgiamo che  ha snocciolato anche Shakespeare, spogliandolo di tutta la sua profondità, e ce ne vuole se per secoli sono scesi fiumi di inchiostro sul tema. Continua. “Il nome è un segno. Poi è arrivato De Saussure (ce lo stavamo aspettando) e ha dato loro ragione: se tu non dai un nome alle cose, non ne puoi parlare”.

Per finire in non bellezza, qualche riga più in là, la nostra tira fuori, non contenta, anche Massimo Troisi con la storia che se chiami tuo figlio Massimiliano, quello non ti darà mai retta perché ora che finisci di dire il suo nome, sarà già scappato via. Già dopo una pagina e mezzo non si capisce più se stiamo leggendo un racconto, un saggio, un  compendio di filosofia o di banalità. Ogni capitolo è dedicato a doti, virtù e difetti del cane, dappertutto imperversano citazioni, rimandi, collegamenti, autori e personaggi noti.

Per esempio nel capitolo sul coraggio (presunto, del cane), ad un certo punto scrive: “Il coraggio vero, quello che bisogna trovare dentro la paura in nome di un ideale che della paura è più forte, è per me quello di Giorgio Ambrosoli, di Paolo Borsellino, di Giovanni Falcone…” e già viene voglia di chiudere e smettere di leggere. Invece andiamo avanti, ed ecco propinarci la storia di Pietro Nava, lunga più di una pagina, fino a giungere, finalmente, al momento in cui Byron evidentemente ha dimostrato un coraggio pari a quello di Giovanni Falcone, se lo si è  preso come esempio per introdurre l’argomento.

L’episodio inizia con la nostra che a quanto pare è stata protagonista di un tour per festival letterari, come lo chiama lei, e che definisce esame multiplo. “Bisogna che il pubblico venga, bisogna che stia ad ascoltare, bisogna che alcuni comprino il tuo libro (appunto, ndr) … appena potevo mi portavo dietro Byron”.

Andiamo avanti e la divagazione è dietro l’angolo. “Quella strana estate capii alcune cose non essenziali ma di una certa utilità pratica”. Che significa questa frase? Non si capisce. “… perché le attrici portano anche di sera occhiali neri (riposano gli occhi), perché girano spesso con un cagnolino (ti fa sentire a casa) …

E perché talvolta le medesime attrici scappano come Julia Roberts in "Notting Hill”. E questo è solo una parte del quarto capitolo. Proseguire in questo intricato compendio di banalità, un Bignami della non fantasia, l’anti-letterarietà, la risposta al negativo a tutto quello che interpretiamo come creazione artistica - modulazione di frasi, concetti, parole, linguaggio straniante,  valore estetico capace di rapire il lettore e portarlo in mondi paralleli, verosimili e accattivanti -  sarebbe stato  un compito arduo e insignificante, se non ci fosse venuta in mente l’idea di farne l’esempio di come non scrivere. Si è sperato fino all’ultimo che sul finale si riprendesse ma, ahinoi, ciò non è avvenuto.

Sintatticamente elementare, assomiglia più alla brutta copia di un manuale per giovani proprietari di cani oppure ad un decalogo di gesta e parole di altri, o ad uno zibaldone delle medie dove ritrovare appunti sparsi e collegati da esili sinapsi. I diari segreti delle quindicenni meriterebbero un posto d’onore in libreria se la Mondadori ha accettato di editare un accrocco scadente come questo.  Ovviamente la scrittrice dedica l’opera alla figlia, il che fa sempre molta scena. Ma si dimentica di rileggere il manoscritto e cestinarlo. Ci dispiace per Byron perché molti non leggeranno della sua epica vita (almeno si spera che il libro sia stato un flop), però intanto la sig.ra Boralevi è Consigliere Diplomatico per la Comunicazione della Cultura e della Immagine dell’Italia. Santo Dante, salvaci tu.

 




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