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E voi lo sapete ingannare il tempo? Martedì 23 febbraio, al Teatro dei Conciatori, una sala gremita lo ha visto fare a due personaggi particolarmente inquieti: Vladimiro ed Estragone.
Stiamo parlando dell’opera teatrale più famosa di Samuel Beckett, quella che si può annoverare come un’opera “dell’assurdo”, e presto viene svelato il perché. Didi (Marco Quaglia) e Gogo (Mauro Santopietro) sono due amici squattrinati che stanno assieme «da mezzo secolo» e si presentano tutti i giorni nello stesso posto, in mezzo al deserto, vicino ad un salice piangente spoglio, e aspettano. Ma cosa, o meglio chi, aspettano? Godot. Non sanno chi è Godot e neanche si ricordano che cosa gli hanno chiesto per attenderlo poi lì. Ma tutti i giorni ci tornano, assieme, e si stupiscono di rivedersi. Gogo entra in scena e cerca di levarsi le scarpe, che gli fanno male, invano. Da subito si nota che è ansioso: si mordicchia spesso le dita e continua a fare domande. Didi sembra un po’ più tranquillo, ma si scopre essere altrettanto insicuro di ciò che dice, e aiuta il compagno nell’impresa, finché quest’ultimo non ci riesce, inveendo contro le scarpe. Didi commenta: «Ah, gli uomini che se la prendono con la scarpa, quando la colpa è del piede!». Entrambi non sono convinti che il giorno prima sono stati lì: cercano di guardarsi attorno e riconoscere il posto. Il palco è arredato in maniera povera, solo l’essenziale. L’attesa rende i due protagonisti schizofrenici: prima litigano e poi fanno pace. Continuano a parlare, per far passare il tempo, addirittura pensano di impiccarsi all’albero ma ci rinunciano, perché devono aspettare Godot: si chiedono se dovrebbero andarsene ma si rispondono sempre di no, dicono di non essere legati alla figura che aspettano, ma non se ne vanno. Alcuni dialoghi sono esilaranti, anche se senza senso: Gogo mangia una carota e dice che più la mangia e più fa schifo, Didi risponde che «a me succede il contrario: mi abituo allo schifo più vado avanti». Le loro espressioni sono perse, piene di dubbi, in costante ricerca di una certezza che mai arriva. I loro discorsi inconcludenti, lamentosi. Nel mezzo della noia irrompono due personaggi che animano un po’ la scena: sono Pozzo (Antonio Tintis), un ricco ed egocentrico mercante che rivendica la terra sulla quale sono, e il suo schiavo, che per ironia della sorte si chiama Lucky (Gabriele Sabatini). Quest’ultimo viene trascinato al guinzaglio da una lunga corda che lo fa quasi soffocare e porta le cose del padrone. Pozzo ci fa ridere: è un classista che si dà tante arie, un dandy, vuole essere sempre al centro della scena, fa capire che è una persona cinica, ma in fondo nemmeno lui se ne vuole andare via. Vuole compagnia. E così convince Didi e Gogo, visibilmente infastiditi, a non andarsene: devono aspettare Godot. Per la loro educazione nell’ascoltarlo, Pozzo vuole fare un regalo ai due amici: fa ballare e parlare il suo schiavo. A questo punto godiamo di un meraviglioso monologo di Sabatini, rimasto zitto tutto il tempo, un filo di parole senza alcun senso, susseguite da frasi in francese, recitate con toni diversi, gesti incondizionati, quasi convulsioni, finché non impazzisce, urla, e gli altri sono costretti a fermare la sua pazzia. Il primo applauso, meritatissimo, si leva da tutta la sala. A fatica, padrone e schiavo se ne vanno dalla scena, e i due protagonisti tornano di nuovo soli. Cala ancora il silenzio inquietante dell’attesa, ma arriva poi un bambino: è un messaggero di Godot, e dice che egli «non viene stasera, ma sicuro domani». Cala la notte, le luci sul palco si affievoliscono, Didi e Gogo rimangono lì a fissare il vuoto, rassegnati, e per l’ennesima volta Gogo dice che «sarebbe meglio separarsi» ma decidono sempre di non farlo. Il giorno dopo i due si ritrovano ancora, ma non ce la fanno più: «Andiamo via?» «Eh no, non si può.» «E perché?» «Aspettiamo Godot!». Ad un certo punto, in scena tornano Pozzo e Lucky: ma adesso il primo è cieco, il secondo è muto. Cadono per terra, e gli altri due, cercando di aiutarli, scivolano con loro. Sono tutti stesi. Didi riconosce servo e padrone, ma quest’ultimo gli parla come se mai li avesse visti, così Didi si domanda quanto ci sia di vero in tutto ciò che si ricorda del giorno prima, perché sembra essere l’unico ad averne memoria. All’uscita di scena di Pozzo e Lucky succede la stessa cosa con il bambino: quest’ultimo sembra non conoscerli. Riferisce che Godot non verrà, e questa volta è Vladimiro ad anticiparlo, perché se lo sente. E’ rassegnato. Ma non abbastanza. Torna la notte. Pensano ancora di lasciar tutto perdere, ma non ce la fanno, il giorno dopo saranno di nuovo lì, «E se lo lasciassimo perdere?» «Ci punirebbe.» «E se viene Godot?» «Saremo salvati». Ma nemmeno loro sanno da cosa: dalla loro stessa esistenza. Dall’attesa, dalla noia. Dalla pazzia. Dallo stretto legame e dalla morbosa dipendenza che hanno l’uno dall’altro. Dal non trovare la forza di cambiare, agire diversamente, pur lamentandosi. Un dramma tragicomico – con scene ricorsive ma differenti - che desta ansia nello spettatore, il quale non ha più la cognizione dello spazio e del tempo, un’opera i cui dubbi esistenziali ne fanno da padroni. Uno spettacolo da ogni punto di vista: quattro attori precisi nel dettaglio, che trasmettono più sensazioni contrastanti, che ti fanno perdere nel vuoto dei loro dubbi, che ti fanno domandare «ma la realtà, dunque, qual è?» e soprattutto «ma esiste davvero un Godot?». Aspettando Godot è una delle metafore della vita: l’attesa in qualcosa che non arriva mai, e la stasi totale nonostante la voglia di cambiare le cose. Dipinge perfettamente tutti coloro che si lamentano dello stato in cui sono, ma non fanno un passo per modificarlo. E tu: Godot lo aspetti o gli vai incontro?
Regia di Alessandro Averone: al Teatro dei Conciatori dal 23 febbraio al 28 febbraio 2016. Informazioni a questo link.
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I commenti: | |||
Commento
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Commento di: emilia.urso | Ip:83.73.103.204 | Voto: 7 | Data 26/12/2024 03:29:58 |
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