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Recensione: 'Porcile' - Di Pier Paolo Pasolini - al teatro Vascello

Recensione: 'Porcile' - Di Pier Paolo Pasolini - al teatro Vascello
Autore: Recensione della nostra inviata Susanna Schivardi
Data: 23/02/2016

 

In scena fino al 28 febbraio al teatro Vascello di Roma, Porcile è un’opera difficile firmata Pier Paolo Pasolini e rivisitata dal regista Valerio Binasco. La regia è rigorosa e perspicace, perché cerca nel testo pasoliniano quello che il testo non dice, piuttosto che svelare ciò che ci è già noto. La sobrietà della scena si rafforza per quanto sia possibile in mano ad una vicenda acre e sadomasochista. La forza degli attori è nella loro recitazione autentica e marmorea, uno studio raffinato della voce e della postura, dove di naturale a volte non c’è alcuna traccia.

Si ha l’impressione di non aver chiaro tutto di quello che Pasolini ha voluto dirci. Il testo nasconde un sottotesto che è da interpretare a seconda della sensibilità di ciascuno. Si può affermare quasi tutto, che qui si parli della società post-bellica, della Germania post-nazista, dei rapporti padre-figlio, dell’indolenza di un adolescente, di un amore malato.

Ma ogni quadro che ci si cerca di costruire nella testa, viene ridimensionato dal successivo, come se l’incatenarsi degli eventi possa far uscire di strada lo spettatore e confonderlo con le vere intenzioni dello scrittore. Non sembrerebbe trattarsi della storia di una decadenza, non è nemmeno il ritratto risibile della borghesia disegnata da Grostz. Brecht si affaccia timidamente e tutto lo Shakespeare più famoso che conosciamo è solo un’ombra. Qui gli attori vivono da soli, non recitano la vita ma la mettono in scena, perché Binasco non cerca metafore, Binasco ama indagare la natura umana.

E mettendo in scena Pasolini, si sa, il rischio è molto alto. E questo regista, con le sue innegabili note da maestro, orchestra il gruppo di attori verso la non-comprensione assoluta del senso ma sicuramente in direzione di una maggiore consapevolezza che il mito e l’archetipo a volte non bastano a spiegare il mistero della natura umana. Francesco Borchi è Julian, il figlio né obbediente né disobbediente, colui che fa del proprio martirio un’effigie, sola via di salvezza.

Elisa Cecilia Langone è Ida, la ragazza per nulla fragile e molto risoluta che tenta di salvare Julian dalla dannazione ma che diventa essa stessa tramite per una comprensione di un livello superiore, quando lei si piegherà ad un matrimonio borghese e il ragazzo invece cederà alla sua dannazione. Mauro Malinverno e Valentina Banci sono i coniugi Klotz, avanzi di un nazismo ormai morto e rappresentazioni di pietà e tenerezza, loro stessi vittime di un sistema che li ha risucchiati, mangiati, ingoiati come i bignè ad una festa decadente di tardo impero. Non vediamoci Crono, in questo padre incapace di comprendere il figlio, qui il padre non vuole divorarlo, è il figlio che divora sé stesso. Il mito non aiuta, la vita va oltre la mistificazione dell’epica umana. La vita si tocca, la vita muore semplicemente vittima di sé stessa, in questo testo.

E sul finale appare un meraviglioso Fulvio Cauteruccio, nei panni di Herditze, carnefice nazista e neo-industriale cinico e vincente. Un mix tra Scarface e Il Padrino, sarà il detentore del segreto finale, la soluzione del giallo che nella seconda parte dello spettacolo incatena lo spettatore alla sedia. Non andate a vedere Porcile per capire Pasolini e nemmeno pensare a Pasolini solo come un profeta illuminato. La chiave dello spettacolo è la sua morte tra le dune di Ostia, laddove lo scrittore andava a cercare il suo piacere, unica e indicibile causa della sua scomparsa precoce. Personaggi a latere ma non meno importanti sono Pietro D’Elia nei panni del servitore di casa – il maggiordomo di tanti testi gialli? – e Fabio Mascagni, Maracchione, il contadino siciliano che sul finale ha visto tutto ma non capisce. Produzione del teatro Metastasio Stabile della Toscana e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con la collaborazione di Spoleto58 Festival dei 2Mondi.




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