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Recensione: 'The Renevant' (Redivivo) -  Leonardo Di Caprio da Oscar

Recensione: 'The Renevant' (Redivivo) - Leonardo Di Caprio da Oscar
Autore: Recensione della nostra inviata Susanna Schivardi
Data: 19/01/2016

 

Video: il trailer ufficiale in italiano

Questa volta l’Oscar se lo meriterà senza riserve, dopo averlo sfiorato con The Wolf of Wall Street, Leonardo Di Caprio che qui si ripresenta in grandissima forma, nell’ultimo film del regista messicano Alejandro Iñárritu. La storia di Revenant è un mix tra western alla Sergio Leone e la parabola di una vendetta, un cammino verso la redenzione e la rinascita spirituale.

Fondamentalmente racconta la storia vera dell’esploratore Hugh Glass (Leonardo Di Caprio), in un’America del Nord attraversata dal Missouri, anno 1823, che durante una spedizione in caccia di pelli viene abbandonato dal suo compagno John Fitzgerald (Tom Hardy). Da solo in mezzo alla neve del Montana, in una distesa bianca disabitata e impervia, deve combattere contro la morte perché un orso lo ha aggredito e ferito. Da qui parte la storia di un uomo che oltre alla propria sopravvivenza deve soprattutto conquistarsi la vendetta. Fitzgerald gli ha infatti ucciso il figlio davanti agli occhi. Un uomo solo, ferito, senza armi, cammina in un terreno spoglio e pieno di insidie. Cammina verso est, verso il suo fortino, dove il capitano Andrew Henry (Domhnall Gleeson) lo crede morto. Le ferite gli riempiono la schiena, un taglio profondo gli attraversa il collo, l’orso per poco non lo ha ucciso. Il corpo rischia di marcire, e solo l’aiuto di un nativo incontrato lungo il cammino gli permette di salvarsi dalla putrefazione.

I nativi e i colonizzatori si fronteggiano in questo film con poche battute sintetiche suggeriscono una storia ormai nota. I nativi sono dei selvaggi, gli altri sono portatori  di civiltà. Fin qui, tutto questo interessa poco perché storia americana, vendetta, morte e amore sono il mood che soggiace sotto racconti già visti. Se quello che fa la differenza tra romanzo e pellicola è l’immagine, allora qui fotografia e regia  possono definirsi miracolosamente splendide, la maestria di Iñárritu alle steady, le panoramiche del superbo Emmanuel Lubezki, i controluce onnipresenti, le sconfinate distese, i tramonti e le albe che si susseguono imperturbabili, ogni ora che si aggancia all’altra mentre i sospiri di Di Caprio sono l’unico segnale che è ancora vivo. Tutto quello che gli accade è colpa di una natura che non lascia scampo, le pelli che lo coprono non bastano contro un freddo inimmaginabile, la condizione fisica che lo opprime è tutta lì tra le pieghe del suo volto, ciò di cui il film è fatto, visto che in più di due ore dirà dieci battute. Il vero protagonista del film è lui ma ciò che lo aiuterà a vincere l’Oscar è il paesaggio fatto di insidie, violenza, impalcabile senso di sfinimento, di impotenza contro una natura selvaggia e impietosa.

Una lotta senza pari che a vederla sembra quasi di sentirsela addosso. Ecco che l’immagine arriva ancora in aiuto, come quando l’orso attacca e anche seduti in poltrona si percepiscono le sue zampe contro la pelle e dentro la carne. Il freddo non è sullo schermo, arriva dentro le ossa, il dolore e la commiserazione di Leonardo Di Caprio diventano dolore e commiserazione anche di chi lo guarda. La rabbia per la morte del figlio diventa rabbia di tutti, il senso di vendetta sfonda i lati della proiezione bidimensionale e si fa vita. La potenza del cinema è questa e Iñárritu accompagnato dalla solenne e maestosa musica di Alva Noto e Ryūichi Sakamoto, persistente come una goccia cinese, sfiora quasi la perfezione visiva.

 




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