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'Mia Madre' di Nanni Moretti - Recensione

'Mia Madre' di Nanni Moretti - Recensione
Autore: Nostra inviata - Susanna Schivardi
Data: 21/04/2015

Il passaggio dalla vita alla morte, la cognizione del dolore in un momento estremo e il gesto coraggioso del distacco. Questo ci racconta l’ultimo lungometraggio di Nanni Moretti, Mia Madre, nelle sale dal 16 Aprile, per proporsi in maniera non dissimile da quella a cui siamo stati abituati nel corso della sua trentennale carriera. Firma la regia, la sceneggiatura, insieme a Valia Santella e Francesco Piccolo, con un cast rigoroso e potente: Margherita Buy, Giulia Lazzarini (presa in prestito dal teatro) e un John Turturro in forma smagliante.

Il resto lo fa Roma, con la sua cornice calda, rassicurante ed evocativa di atmosfere e luoghi dell’animo dove a volte scendere appare una fatica incommensurabile. Solo gli occhi immensi di Margherita, omonima nel film a recitare la parte di una regista in piena crisi di coscienza, possono definire tutto quello che fino a quel momento non è stato possibile fare con le parole.

Margherita inciampa continuamente sugli errori e i rimpianti, i sensi di colpa che nutre verso sua madre, per l’appunto, unica e come tante altre, al finir della vita, quando le gambe e il cuore non reggono più ma che, nonostante tutto, ancora insegna mentre cita i suoi autori preferiti come CiceroneTacito e Lucrezio.

Proprio quel latino tanto inviso alla nipote tredicenne che alla fine piangerà teneramente la morte della nonna, dopo che lei, ancora per poco parte di questa terra, finisce per farle apprezzare la cultura classica e il passato come veicoli per comprendere il nostro presente.

L’animo è l’altro protagonista di questa pellicola, cesellato perfettamente nelle sue mille pieghe e travolto dal dolore di fronte al poco tempo che l’anziana donna ancora ha a disposizione, la donna che non riesce più a fare nemmeno due passi per arrivare al bagno. Laddove l’animo soccombe, subentra la ragione che tutto vorrebbe contenere al cospetto dell’ineluttabile traducendosi in frenesia, incomprensione, rivolta. La rivolta degli operai che Margherita dirige sul set, nel suo film dal titolo Noi siamo qui, nel tentativo vano di incollare una verosimiglianza a quella che è l’eterna finzione del cinema.

L’incomprensione si solleva come un uragano tra lei e un attore indisciplinato, John Turturro nei panni di Barry Huggins, vulnerabile, depresso ma anche profondamente umano, frustrato e alla fine intimo, come quando si sta a tavola con un amico, a parlare di quelle cose che rendono le persone più vicine.

A chieder conto del dolore è poi il pensiero, la mente vigile e implacabile, in una notte fonda quando il sogno e l’illusione si danno la mano, impedendo al cuore di fare un tuffo imperdonabile e definitivo. Il film di Moretti ci parla in maniera diretta, pulita, uniforme e semplice. L’attore regista è come un’ombra, una didascalia che raccorda le sfilacciature degli altri protagonisti, persi, abbandonati e solitari perché questa madre se ne sta andando e contro questo destino nulla si può, nemmeno la forza dei rapporti, dell’amore, della condivisione.

L’unico filo di speranza è la nipote che impara ad innamorarsi e a rimanere delusa, a guidare il motorino e ad apprezzare quei testi di latino su cui la nonna aveva passato metà della sua vita. La dimenticanza e la perdita espressi dagli scatoloni nella vecchia casa della madre chiudono l’obiettivo sull’inutilità dell’eterna domanda umana, sul dove andremo e come finiremo, innescandosi sul disorientamento che la morte inevitabilmente provoca.  




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