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Cinema: 'Vizio di forma' di Paul Thomas Anderson - Recensione

Cinema: 'Vizio di forma' di Paul Thomas Anderson - Recensione
Autore: Susanna Schivardi - Redazione Cultura
Data: 09/04/2015

Per parlare del film per il cinema Vizio di Forma, bisogna prima parlare di Pynchon autore del libro da cui è tratta la storia. Lo scrittore è psichedelico e trasbordante di fantasia noir e allucinazioni chimiche. L’intreccio si dipana in una metafora eclettica tra senso di fine del mondo e vertigine umana costantemente imprecisata, in una società che muta senza che i protagonisti siano pronti alla metamorfosi.

Il regista è Paul Thomas Anderson, lo stesso di Magnolia, dove, se ricordate, ad un certo punto piovono rane dal cielo, fortemente influenzato dalla lezione altmaniana come mai in questo capolavoro, riportandoci al Grande Lebowsky, ai fratelli Coen e al Tarantino autoironico e splatter. Senza indugiare troppo in quello che può rappresentare il sostrato narrativo di questa trama rocambolesca, la riuscita del video è decisamente convincente per vari motivi.

Innanzitutto il montaggio, inzeppato di primi piani incorniciati da dialoghi serratissimi e mai noiosi, poche vedute su un ambiente immediatamente riconoscibile, la Los Angeles degli anni ’70 in disfacimento, una colonna sonora straniante e a volte disturbante e sopra ogni cosa il protagonista, Joaquin Phoenix, nei panni di Doc, ovvero Larry Sportello, uno scalcinato investigatore, strafatto e intuitivo come solo i fattoni sanno essere in alcuni momenti. Intorno a lui si avviluppa una vicenda torbida e piena di volti e vicende che si attorcigliano in un viscerale intreccio, contorto al limite dell’ incomprensibile, dove gareggiano e si avvicendano attori come Eric Roberts, Owen Wilson, Benicio del Toro, Katherine Waterston, Josh Brolin, Joanna Newsom.

Come in un’epica in cui dei e umani si fronteggiano, qui gli umani vengono schiacciati da un destino comune, la fine di un sogno e di un’epoca, l’esaurirsi di un anelito alla libertà soppiantato dal crudo realismo della guerra del Vietnam e della violenza. La marijuana è l’altra protagonista del film, simbolo della perdita del sé in un mondo dove rimanere sobri sembra una controtendenza.

L’unico modo per sopravvivere è crearsi una realtà parallela in cui immergersi e perdersi, per ritrovare il proprio senso.  In vizio di forma, il vizio intrinseco è quello che non si può eludere, l’ineffabile che non si lascia prevedere, ciò che non può essere assicurato perché appartiene direttamente all’oggetto, è una sua caratteristica, il difetto che però lo distingue e lo rende unico.

E in una metafora interna al film, il vizio è la sua stessa forma, nell’apparente lunghezza della pellicola, il tempo sembra non essere sufficiente per esaurire tutti i dubbi che rimangono accesi. Anche questi dubbi però fanno parte del vizio che lo corrode, il contenuto si stacca ad un certo punto dalla bidimensionalità, per prendere vie proprie, assolute, parallele che in qualche modo ci suggeriscono una soluzione, ma senza il sollievo della certezza.

Doc è un personaggio autoironico, borderline, fortemente comico come tutta l’epoca postmoderna che lo inghiotte, inciampa su se stesso ma poi si risolve nella ricerca del finale buonista. La dea bellissima che lo ammalia, come le sirene fecero con Ulisse, è la languida Katherine Waterston, nel film Shasta,  a cui sarebbe valso un Oscar soltanto per la scena di sesso finale, l’unica del film, in cui si fa trattare da puttana proprio dall’uomo che non ha mai smesso di amare. Il poliziotto vagamente omofilo, detto Bigfoot (Josh Brolin), rimane indimenticabile nel suo appellarsi detective rinascimentale, l’ex tossico poi diventato spia Coy Harlingen (Owen Wilson) rimarrà impresso nell’immaginario con quella foto che ricorda tanto l’ultima cena.

A raccontarci la storia di Doc e del suo amore, perché in fondo, come fu per Elena che fece scoppiare la guerra di Troia, è l’amore che muove il film, ecco la voce fuori campo e a tratti vaga comparsa nella storia, di Sortilege (Joanna Newsom), che melliflua si distacca dalla vicenda come una visione, una sacerdotessa alle prese con la tavoletta oujia, un presagio. Il presagio del vizio che inevitabilmente rende perfettibile e non perfetto questo film. 




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