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L'amore bugiardo. Quando un film delude nel finale

L'amore bugiardo. Quando un film delude nel finale
Autore: Susanna Schivardi - Redazione Cultura
Data: 27/12/2014

 

Titolo originale Gone Girl, produzione americana del 2014, durata 149 minuti che filano via come proiettili, genere thriller per la regia di David Fincher, dal romanzo di Gillian Flynn e per la sceneggiatura dello stesso Flynn. Il protagonista è il bellissimo e versatile Ben Affleck, nei panni del tipico americano sempliciotto Nick Dunne, scrittore fallito e sposato ad una donna complicata di New York, Amy Elliott-Dunn, l’attrice Rosamund Pike.

A completare l’affresco tergiversante di questo polpettone statunitense ci sono Carrie Coon, nei panni di Margo Dunne, sorella gemella di Nick che fa la parte dell’altra faccia di Giano bifronte, di un Nick che senza di lei sarebbe nullo. E poi ci sono la burbera ma simpatica detective Rhonda Boney, la sprovveduta studentessa (con cui se la fa Nick) Andie Fitzgerald e gli altri satelliti di quello che, fin dalle prime battute, ha proprio l’aria di un thriller con i fiocchi. La struttura è perfettamente corrispondente al cliché americano, secondo un patto con lo spettatore che convince non appena entrano in scena i primi attori. Nick e Margo, gemelli e molto uniti, ci aiutano, non senza evitare i flashback, a disegnare nei minimi particolari i contorni di un rapporto agli sgoccioli, quello tra Nick e la bellissima Amy.

Nei minuti successivi ci facciamo un’idea di Amy che è esattamente come ce la siamo immaginata fin dall’inizio, perché non c’è che dire, gli americani in questo sono proprio bravi. Poi arriva il famoso punto di svolta, quello in cui la storia prende una strada dalla quale non potrà più deragliare. Nick si rende conto che la moglie è misteriosamente scomparsa, ed entra in scena Rhonda, detective non affascinante ma scrupoloso e minuzioso nelle ricerche. Da lì un susseguirsi di indizi che lentamente porteranno lo spettatore a ridefinire il rapporto tra Nick e Amy, una donna tutt’altro che perfetta come fino ad allora invece mezzo mondo aveva creduto.

E anche il pubblico, a dir la verità, ci era cascato. Ma è una trappola, perché ad un certo punto si avvera una seconda svolta, in realtà attesa dalla fantasia dello spettatore, perché tutto porta a quella conclusione (di cui non sveliamo i particolari). Nessuno si offende, perché i segnali sono innegabili, un thriller risponde a regole certe e sicure e anche se il finale potrebbe essere scontato, l’attesa non deve essere delusa. Il pubblico vuole un finale a sorpresa, l’indizio a cui nessuno aveva pensato, e che soltanto uno sceneggiatore geniale sa inventare.

E invece no. L’intreccio continua a sorprenderci, si insinua, dopo già 120 minuti di pellicola, in un pericoloso scivolone sui media e sul loro effetto deflagrante sui fatti di cronaca, specialmente delittuosi. Nick ed Amy diventano protagonisti di un giallo che viene spiattellato in tv da un avvocato magistrale e da anchorwomen senza scrupoli. Nonostante questa deviazione molto ad effetto, lo spettatore si aspetta ancora che il colpevole venga incastrato da un particolare a cui non aveva fatto attenzione, il particolare letale. Invece, nonostante la lunga attesa, al centoquarantottesimo minuto quando il film ancora regge, arriva la delusione, il boato di chi si sente tradito. La sceneggiatura spezza il patto col pubblico, l’empatia svanisce e lo scivolone del finale rende vano tutto lo sforzo compiuto fino a quel momento. Non basta la musica elettronica da teatro neoavanguardista col palco vuoto, non basta la bellezza di lei su cui il regista indugia prima di andare a nero. La sceneggiatura inesorabilmente crolla e con lei tutto lo sforzo del pubblico incollato alla sedia del cinema per più di due ore. 




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