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Sono tornati con Parco della Musica Records, in associazione con Jando Music, i Doctor 3, trio storico degli anni ’90, composto da Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria. Presso l’Auditorium Parco della Musica alle 12 del 4 giugno il trio si è presentato con il nuovo album, dopo aver trascorso alcuni anni divisi, come accade nelle migliori storie d’amore. “Ci siamo ritrovati in un agriturismo – racconta scherzando Pietropaoli – e di notte non c’erano i riscaldamenti, era inverno e faceva freddo e, come succede sempre, quando si soffre si crea meglio”. I tre ironizzano sulla loro storia musicale, i loro incontri sempre caratterizzati da allegria e fantasiosi intermezzi. Anche in occasione della presentazione dell’album non mancano di deridersi e giocare sulle loro scelte. Forse cinque, forse sette anni sono trascorsi dall’ultimo disco, anche su questo argomento sembrano non trovare un accordo. “Questo è un nuovo esperimento con i Doctor 3 – interviene Danilo Rea – l’importante è suonare insieme a persone con cui c’è amicizia, perché si stabiliscono cose intime che contano tanto”. Sono il primo gruppo ad aver coniugato la musica degli anni ’70 con l’improvvisazione, come nel 1998 con Biagio Pagano, con un disco molto rischioso che hanno portato alla Town Hall di New York e che il critico di allora del New York Times aveva definito la musica proposta da italiani, che aveva tirato di più. Fabrizio Sferra tende a precisare “abbiamo messo in evidenza la modalità in atto, di evitare gli a soli tipici del jazz, eseguendo invece un solo collettivo. Quindi la musica tende ad essere tematica e collettiva, con una forte impronta melodica”. Ogni brano ha un inizio e una fine, hanno in parte abbandonato l’uso di mescolare temi, anche se Danilo Rea lo definisce un delirio sul tema. “Il tema è centrale, viene presa una cellula tematica e rigirata in tutti i modi, facendo si che incastri ritmici aumentino le possibilità di esecuzione”. Non hanno fatto niente di rivoluzionario ma hanno reso attuale un certo tipo di musica, soprattutto degli anni settanta, che, come dicono loro, piace sempre a tutti. “Abbiamo provato ad improvvisare su Eminem o sui Coldplay – continua Rea – ma ci siamo resi conto che la musica di oggi ha dei limiti, è sempre presente l’arrangiamento, invece sui pezzi del passato le melodie sono così potenti che guidano l’esecuzione”. In questi anni, senza farne un giudizio di merito, il pop è costruito su troppi arrangiamenti, mentre la loro musica, come la musica jazz, ha bisogno di spontaneità e sentimento. “Ogni volta che decidiamo di suonare qualcosa – racconta Pietropaoli – quando siamo sul palco cambiamo automaticamente idea. Così è successo a Perugia, avevamo detto facciamo questo, facciamo quell’altro e poi …”. Il feeling musicale è anche affinità elettiva di intenti e concezione ritmica. I brani scelti su cui riorganizzare il ritmo fanno parte di un loro personale sentire collettivo che pone un’affettività forte indispensabile per suonare insieme. David Bowie, Simon and Gurfunkel, Elton John, i Bee Gees rientrano in quella tradizione melodica e romantica che così tanto ci differenzia dagli americani. In quella che sembra più una seduta di psicoanalisi, come dice Pietropaoli ironizzando su di sé, che la presentazione di un album, non manca l’ascolto di alcuni brani, che sopra ogni altra cosa sanno parlare perfettamente di loro. |
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I commenti: | |||
Commento
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Commento di: emilia.urso | Ip:83.73.103.204 | Voto: 7 | Data 21/12/2024 05:29:06 |
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