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Non era una “prima volta” eppure è come se lo fosse stata. L’omicidio di John Fitzgerald Kennedy seguì altri due assassini presidenziali, quello ben noto di Lincoln e quello forse meno famoso di Mc Kinley all’inizio dello scorso millennio. Ma più degli altri ha stuzzicato l’immaginario collettivo americano e mondiale, perché questa volta a documentare c’erano le riprese televisive, oltre alla telecamera 8 mm aggiuntiva di Abraham Zapruder che senza volerlo fece esplodere con i suoi fotogrammi le più ardite teorie complottiste, di fatto tutte false perché senza elementi di verifica. Ma l’enigma è “la struttura narrativa più antica ed intrigante”, per usare le parole di Mario Sesti e Antonio Monda, giornalista il primo e scrittore il secondo, che nella serata dell’8 gennaio all’Auditorium Parco della Musica hanno tenuto l’incontro “L’occhio che uccide: Jfk, i media, il cinema”, nell’ambito del ciclo di lezioni sul 35° presidente degli Stati Uniti nel cinquantenario dalla scomparsa. Il piccolo ed il grande schermo non potevano non attingere a mani basse dalla realtà e da congetture più o meno probabili per attirare l’attenzione di un pubblico che in qualche modo aveva da dire la sua o voleva formarsi un’opinione. E che si riconosce(va) in un sentimento collettivo diffuso, a partire dalla cosiddetta “perdita d’innocenza” per la scoperta delle menzogne governative – o almeno di tratti ben poco chiari nel definire i contorni della vicenda. Kennedy fu ucciso in un momento in cui la sua popolarità era in ribasso, contrastato dall’ala più radicale dei democratici oltre che ovviamente dai repubblicani. Il forte impatto emotivo però rese facile, per chi c’era, rispondere alla domanda su cosa stesse facendo nel momento in cui venne a sapere della notizia, un abbinamento con la vita privata che viene agevole solo per eventi epocali. Ma alla tristezza del ricordo dopo un po’ andava a sostituirsi il cinismo, come nel film di Arthur Penn Night Moves, in cui a quella stessa domanda Gene Hackman risponde freddamente “quale Kennedy”, alludendo alla prematura fine del fratello Bob. Una differenza sostanziale con la mentalità nostrana si potè notare invece nelle serie televisive, usate per rievocare la storia in un periodo in cui in Italia erano un veicolo di intrattenimento medio-popolare. Il linguaggio più “adulto” venne usato dalla Hbo e da altri canali sia per aumentare le informazioni che come investimento nella ricerca di nuovi talenti. Ovviamente quando non si cercava la manipolazione, vedi il caso del discusso Jfk di Oliver Stone, in cui prevale la teoria di una cospirazione portata avanti dagli ambienti più di destra uniti in una folle alleanza che comprendeva esercito, mafia, Pentagono e militanti anticastristi. Interessante notare poi come la struttura narrativa potesse differenziarsi a seconda di quale tecnica, induttiva o deduttiva, potesse essere usato nella ricostruzione dei fatti: da una parte l’esempio del regista Pakula che nel film Perché un assassinio? riflette su come i media potessero usare a piacimento le immagini per indirizzare l’opinione pubblica, all’opposto l’idea di Blow Up di Antonioni in cui è la sequenza di foto a svelare dettagli non notati in precedenza. Se la letteratura più seria ha sostanzialmente bocciato complotti di qualsiasi tipo, basandosi sul corposo lavoro della commissione Warren, ovviamente non sempre è stato così, perché come viene detto ne L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford, “quando la leggenda supera la realtà, stampa la leggenda”. |
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I commenti: | |||
Commento
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Commento di: emilia.urso | Ip:83.73.103.204 | Voto: 7 | Data 21/12/2024 04:27:23 |
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