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'Mastro Don Gesualdo' apre la Stagione al Teatro Quirino

'Mastro Don Gesualdo' apre la Stagione al Teatro Quirino
Autore: Nostro inviato Luca Nasetti
Data: 09/10/2013

Chissà che non siano proprio i classici a riportare i giovani a teatro. O che il loro risveglio culturale dal sonno dogmatico della tecnologia, non venga frantumato in parte dalla riscoperta genuina del senso di critica nei confronti di un’opera che non abbia a che fare solo con i più moderni, ma semplicistici e riduttivi click “mi piace”. Sentire ieri sera liceali in fila alla cassa del foyer del Teatro Quirino dire “da domani inizio a leggere il Mastro Don Gesualdo”, vuol dire che la messinscena di Guglielmo Ferro che ha aperto la stagione del Quirino in omaggio al padre Turi che interpretò il personaggio di Giovanni Verga negli anni sessanta, ha fatto scattare qualcosa in loro. Anche fosse stata un’inutile battuta goliardica da adolescenti, qualcosa li ha illuminati.

Forse il “doppio” ruolo interpretato da Enrico Guarnieri: nelle vesti del padre padrone di casa Motta che da vecchio e malato, in punto di morte, ricorda commentando, solo con se stesso davanti allo specchio della sua coscienza, la rabbia dei momenti passati con la famiglia e maledicendo tutti i parenti e amici (compreso il prete) che volevano approfittare delle sue immense ricchezze. Ma anche nei panni dell’uomo adulto Gesualdo assetato di potere, che piano piano dalla plebe come semplice muratore si innalza a “don” del piccolo paese siciliano di Vizzini. Le scene dei flashback di vita passata e i monologhi del Mastro si alternano per tutto lo spettacolo, ma se nel primo atto lo spessore dei personaggi prende sempre più corpo ed eccita il pubblico perché tra di loro coinvolti nel raccontare una storia che ancora gli appartiene alla pari con il Gesualdo-Guarnieri, nel secondo il padrone “ruba” il palco.

Lasciando il resto della ciurma un po’ nell’ombra e a mere figure di accompagnamento verso la tragica fine e la morte del protagonista. Il divenire della trama così rappresentata, sposta indubbiamente l’attenzione sull’interpretazione di Enrico Guarnieri, che regge da sé tutta la storia e il palco (nel secondo atto praticamente è da solo), ma che proprio per questo fa crescere in chi guarda un po’ di nostalgia dell’estro apprezzato negli altri attori.

Scompare di scena, per esempio, il personaggio del curato (Rosario Minardi): preso come non mai dalla mania di grandezza e dal potere che intravede nelle qualità del Mastro, si adopera in tutti modi (tramando e consigliando) per ottenere ciò che vuole: la terra. Minardi mette in scena tutta la tragicità di una chiesa che anche (o già?) nel risorgimento non nascondeva vizi e virtù. Impossibile quindi non coglierne anche tratti comici nel suo essere così serio, deciso e determinato. Il che rende l’interpretazione gustosa e inevitabilmente apprezzabile.

Anche il prete però, come tutti gli altri, alla fine resta un “vinto”: così come i Motta e Trao lo sono in seguito ai comandi inderogabili del Mastro Don Gesualdo, così lui a forza di rincorrere i falsi miti della ricchezza, potere, fama e gloria, muore da solo e abbandonato da tutti. Anzi, anche da morto c’è chi vorrebbe approfittare delle immense ricchezze lasciate, ma forse è troppo anche per la storia. Il sipario si abbassa. Basta così per questa sera.

La platea gradisce e senza esitazione investe tutto il cast di applausi: Francesca Ferro, Ileana Rigano, Rosario Minardi, Vincenzo Volo, Rosario Marco Amato, Pietro Barbaro, Valeria Panepinto e Giovanni Fontanarosa oltre che naturalmente al catanese Enrico Guarnieri, scivolano nella riduzione minimalista all’opera di Verga del regista Ferro, i cui vuoti scenici vengono riempiti però, non senza un certo piacere nell’ascoltarli, dalla cadenza palermitana con cui gli attori recitano. Lo spettacolo andrà avanti fino al 13 di ottobre, per una messinscena che vale la pena ascoltare, almeno nei dialoghi e negli scambi immediati di battute (cioè nel senso proprio di non-mediati da altri mezzi intermedi, questa è la magia del teatro) che registrano in sé certi significati ormai persi o offuscati da una più facile comunicazione invece più “mediata” e priva di sentimenti. Anche per i giovani.




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