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Il cavaliere ritrovato: The Lone Ranger e il selvaggio West

Il cavaliere ritrovato: The Lone Ranger e il selvaggio West
Autore: Alessio Bologna - Redazione Cultura
Data: 13/07/2013

 

Era il 1933, quando, per la prima volta e negli Stati Uniti d’America, radio e fumetti diffusero le avventure di un singolare Texas Ranger, successivamente riprese da una serie televisiva, ideata da George W. Trendle e destinata a riscuotere grande successo negli anni Cinquanta e non solo, visto che un decennio più tardi ne venne prodotta anche una versione animata: protagonista della saga è John Reid, il quale, dopo esser sopravvissuto ad un agguato grazie all’intervento del nativo americano Tonto decide d’indossare una maschera e di mettersi al servizio dei più deboli sotto lo pseudonimo di “cavaliere solitario” .

 

Questi, nella versione originale del piccolo schermo, intitolata appunto The Lone Ranger, fu interpretato da Clayton Moore e successivamente da John Hart, i cui volti andarono così ad arricchire il corpus iconografico riguardante la “conquista del West” e in particolare il mito che di essa andava costituendosi, grazie specialmente al successo di cortometraggi a tema. Lo dimostra, ad esempio, Il grande assalto al treno, film di Edwin Porter del 1903, nel quale, nonostante la brevità della bobina (12 minuti in tutto), è contenuta una varietà di scene, tra cui sparatorie e inseguimenti a cavallo, che si ritrova in numerosissimi film prodotti soprattutto dagli anni Venti agli anni Settanta. D’altra parte il western, inteso come genere cinematografico, se da un lato contribuì in modo significativo ad alimentare, nel popolo statunitense (notoriamente assai composito dal punto di vista delle origini), un senso di appartenenza e quindi di nazione, dall’altro riscosse un enorme successo in questo periodo, tanto da rappresentare circa il venticinque percento della produzione hollywoodiana.

Quest’ultima seppe quindi individuare e orientare i gusti popolari, tradizionalmente sensibili ai temi avventurosi, imprescindibilmente legati a quelli di frontiera, reale o simbolica che sia, ma comunque ben rappresentata da the big country, il cui universo mitico è per lo più contrassegnato dalla presenza di personaggi epici che sfuggono alla sedentarietà della civilizzazione, privilegiando un’esistenza nomade, libera e a contatto con la natura, secondo il principio che associa le dimensioni “inurbana e urbana” rispettivamente ai concetti di giustizia e ingiustizia ovvero corruzione.
Si tratta di un universo popolato di cacciatori, cercatori d’oro, coloni, esploratori, “indiani” e soldati, ma soprattutto di cowboy ovvero giovani mandriani, i quali, storicamente, erano individui posti ai margini della società (poveri, malnutriti e solitamente neri, meticci o ispanici), mentre nell’epopea western vengono, per così dire, nobilitati con tratti occidentali, o meglio anglosassoni, e di grande prestanza fisica, nell’intento di esaltarne il valore in termini di nobiltà d’animo, di coraggio: requisiti di cui sarebbero privi i cosiddetti “piedi dolci” dell’Est, incapaci appunto, perché deboli, effemminati o cattivi, di cavalcare, usare il lazzo, sparare con pistole e fucili, insomma di dominare le avversità della natura, quali nemici, condizioni climatiche estreme, animali feroci o velenosi e così via. Inoltre l’acquisizione di tali competenze ovvero l’atto di “divenire uomini” prevede un percorso formativo, che solitamente relega la donna e più in generale le vicende amorose a un fatto marginale, cosicché l’essenza del cowboy risiede non tanto nelle sue doti seduttive, ma piuttosto nell’eroismo che egli impiega a difesa della Giustizia.       
Se è vero che la figura del cowboy fu esaltata per la prima volta dal Virginiano, romanzo di grande successo di Owen Wilson (1902), è altrettanto vero essa si è evoluta nel corso del tempo, riflettendo, specialmente sul grande schermo, non solo i diversi gusti e sensibilità dei registi impegnati a rappresentare tale soggetto, ma facendosi anche portatrice di differenti istanze culturali. La stessa mascolinità, aspetto caratterizzante la cinematografia delle origini, è stata progressivamente scalzata da pellicole, i cui protagonisti rivelano spesso un lato sentimentale: basti ricordare, se pur con le debite differenze stilistico-contenutistiche, Balla coi lupi di Kevin Costner (2003) e I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee (2006), le cui trame si soffermano appunto su aspetti introspettivi.
Tra i massimi successi di questo filone rientrano comunque Fiume Rosso di Howard Hawks (1948), incentrato sulla contrapposizione generazionale tra padre e figlio, Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann (1952), icona del coraggio individuale, I magnifici sette di John Sturges (1960), che descrive una sorta di missione salvifica a sostegno di popolazioni vessate, L’Uomo che uccise Liberty Valance di John Ford (1962), apologia della legge, Soldato blu di Arthur Penn (1970), atto di denuncia contro violenze e abusi perpetrati a danno di innocenti, Gli spietati di Clint Eastwood (1992), dai forti connotati realistici. A questi devono aggiungersi “sottocategorie”, come gli spaghetti western, in particolare i capolavori di Sergio Leone Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966), ma anche parodie, di cui val al pena ricordare Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks (1974), e ibridi, quali Wild Wild West (1999), ove si ravvisano toni comico-fantascientifici.

Ed è proprio a quest’ultima tipologia che afferisce il nuovo film ispirato alle imprese del citato John Reid, uscito recentemente nelle sale italiane col titolo di The Lone Ranger e impersonato dal giovane Armie Hammer, come i suoi predecessori munito di maschera nera e cavallo bianco. Egli, assieme ai ben più noti Johnny Depp e Helena Bonham Carter, nei ruoli rispettivamente di Tonto e Red, è infatti il coprotagonista del nuovo lungometraggio di Gore Verbinski, regista divenuto celebre con la saga Pirati dei Caraibi, della quale ripropone in chiave western gli ingredienti avventurosi, comici e fortemente spettacolari (degna di nota è la scena finale dell’assalto al treno), grazie anche a un budget elevato e ad attori esperti, oltreché ben collaudati tra loro, come la celebre coppia citata poc’anzi, più volte impegnata sotto la guida di Tim Burton. Il risultato è quello di dar vita a un prodotto leggero, semplificato rispetto a quello originale e privo di pretese autoriali, cui tuttavia va il merito di aver ravvivato un personaggio rimasto a lungo nell’oblio e quindi di averlo reso fruibile al grande pubblico, che del selvaggio West rammenta a mala pena il nome.   

 




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