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Sono stato alla prima di "Mio cuore, io sto soffrendo cosa posso fare per te?", spettacolo ideato e diretto da Antonio Marras, portato dal Cedac Sardegna in anteprima assoluta al Teatro Massimo di Cagliari, e in scena fino all’ultima replica di domani prima di spostarsi il 27 al Teatro Civico di Alghero e toccare poi in tournée i palchi di Milano, Roma, Bari e New York. E stavolta scrivere di cosa ho visto è davvero un'impresa non facile. Devo fare una doverosa premessa e mi perdoneranno gli estimatori, ma non avevo la minima idea di chi fosse Antonio Marras, ricordavo a malapena che fosse uno stilista e dal cognome arguivo che fosse sardo. Stop. Conosco il mondo dell'alta moda quanto gli usi e costumi della mongolia inferiore, e pure con l'arte contemporanea ho un rapporto conflittuale, ogni tanto ci si incrocia, qualche volta è bello ma sono più le volte che mi lascia perplesso. Che Antonio Marras sia un grande stilista apprezzato e stimato ai più alti livelli nazionali e internazionali, nonché un artista affermato che ha raggiunto vette come la biennale di Venezia, la triennale di Milano, una laurea honoris causa dall'Accademia delle belle arti di Brera e mille altri riconoscimenti, l'ho scoperto cercando chi fosse dopo aver letto un'intervista il giorno prima. (Immagino che questo mi assicuri un posto nel girone degli eretici ma transeat) Insomma un pezzo da novanta, un orgoglio dell’eccellenza sarda, uno di quelli per cui si può usare senza ironie la frase "la sua fama lo precede". Pure troppo, aggiungo io da profano assoluto. Arrivo al Massimo, mi accendo una sigaretta prima di entrare e cerco di farmi un'idea dell'aria che tira guardando le persone che entrano con fare scanzonato. "Il pubblico è quello delle grandi occasioni" hanno scritto i giornali usando uno stereotipo sempreverde. Io ho assistito a uno spettacolo nello spettacolo. Davanti a me una vera e propria sfilata, ho visto passare cappellini e velette di cui ignoravo l'esistenza, scarpe improbabili, papillon ottocenteschi, vestiti di paillettes che neanche Raffaella Carrà nell' 86, e tutte le possibili declinazioni dell'essere "in tiro" a Cagliari. Ammetto di essermi fatto una cultura, alcune mise le avevo viste solo in foto o nei video delle sfilate. Una ragazza indossava un vestito che sembrava una twingo e ai piedi aveva dei sandali aperti estivi sopra dei calzini celesti con dei disegni gialli che sul momento ho identificato come giraffe, ma non ne sono sicuro. "Quindi esistono davvero le persone che si vestono così, essi vivono in mezzo a noi" pensavo. E' stata la parte più divertente della serata. Era evidente che gran parte del pubblico appartenesse a quel mondo a me sconosciuto genericamente definito "ambiente della Moda", giunti da ogni dove a celebrare il loro beniamino. Entro e mi preparo ad assistere dal mio posto nel loggione, praticamente in Kurdistan, col vetro anti-suicidio davanti che ha sempre il suo perché. Buio in sala. Tu-tump...tu tump..tu tump...un battito cardiaco piuttosto ansiogeno che sale d'intensità fino a diventare due note ossessive. Farà da sottofondo per tutto lo spettacolo, il trait d'union per tutte le scene e solo alla fine realizzo che le due note sono l'intro della canzone di Rita Pavone a cui si ispira il titolo dell'opera. Non ascolto spesso Rita Pavone. Sul palco salgono venti persone, dieci uomini e dieci donne, tutti in mutande. Il resto è qualcosa che anche volendo, faccio fatica a ricordare con un filo logico ma solo per immagini. Il debutto alla regia di Antonio Marras è un viaggio onirico nel suo personalissimo mondo, non c'è un tessuto narrativo vero e proprio, sono più scene tagliate e cucite attraverso figure simboliche, rappresentazioni visuali dalla risposta emotiva forte e immediata ma difficili da contestualizzare in qualcosa di compiuto. Dall'entrata in scena di un Mamuthone al canto di Elena Ledda, probabilmente a rappresentare le radici e l'appartenenza dell'artista, al linguaggio corporeo che fonde violenza e dolcezza ricorrendo anche al grottesco, fusioni di corpi e danze macabre, l’umiliazione dell’essere dominati, la lotta con la propria immagina riflessa da uno specchio a tre ante, la liberazione e l’orgoglio nella danza finale. Marras gioca e sperimenta coi linguaggi, con una cifra sempre e solo personalistica, sembra un montaggio cinematografico dal vero, di quelli che puntano l’obbiettivo sull’interiorità del protagonista, con tutte le nebbie e i fantasmi che danzano. Solo che nei film si torna al “fuori”, spazio e tempo riassumono i loro contorni riconoscibili e lo spettatore si riconosce nel pianeta terra. In questo spettacolo no, si rimane “dentro” Marras non da tregua, bisogna seguirlo fino alla fine nelle sue rappresentazioni e non è per niente facile. Se il teatro ammesso, che lo si possa definire, è una magia “orizzontale” che accade nel qui e ora della scena col pubblico come parte integrante di un patto non dichiarato, l’esordio del celebre stilista sembra più dettato dall’urgenza artistica “verticale” di dare corpo alla propria interiorità, di cui il pubblico lungi dall’essere partecipe può essere solo mero e passivo spettatore. “Forse sono io che non ho capito”, è quello che ci si ripete a una mostra quando ci arriva incomprensibile fino al brutto e allo sgradevole, o a una sfilata in cui ti chiedi che senso abbiano certe stravaganze a parte la sfilata stessa. Quelli che, me compreso, avevano questa frase stampata in faccia all’uscita dalla sala li riconoscevi da due cose: dalla faccia e dal fatto che fossero vestiti normali. Tutti gli altri erano entusiasti oppure mostravano di esserlo senza averci capito niente lo stesso e sorridevano a oltranza. Sono uscito dalla sala pensando di aver visto una rappresentazione pretenziosa e fin troppo autoreferenziale, per niente inclusiva, che sembra dire allo spettatore “o ti piace o non hai gli strumenti per capirla”. La sensazione a caldo, era che non mi stava lasciando nulla emotivamente. A qualche giorno di distanza però, mi sono reso conto che non è vero, qualcosa rimane e anche molto forte, ma non va cercato in una storia, o nell’interpretazione degli attori, o nei testi. Rimangono le immagini, il visuale, lo shock di superficie, che non rimangono ancorati nel tuo profondo forse perché racconta già l’interiorità di un altro che occupa già tutto lo spazio. Forse (sicuramente) sono io che non ho capito e non ho gli strumenti per farlo, ma lo spettacolo non mi è piaciuto. Forse, l’aspetto che ha maggior spessore ripensandoci adesso, è che usando linguaggi non teatrali (danza, cinema, moda, etc.) usa il teatro come uno strumento per “arrivare dopo” e non necessariamente al momento della scena di cui si toglie la responsabilità immediata. Ci devi ripensare a freddo. E allora si muove qualcosa. E’ come se consegnasse allo spettatore un cesto pieno di immagini stampate a tinte forti come significanti e lasciasse a lui, se crede, l’onere di dargli un significato. Il“suo”. In un senso soltanto. |
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I commenti: | |||
Commento
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Commento di: emilia.urso | Ip:83.73.103.204 | Voto: 7 | Data 30/12/2024 09:09:03 |
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